“Domenico” di Marco Claudio Valerio è il lento, rassegnato, percorso di un “invisibile”, uno dei tanti barboni “con le scarpe di corda inzuppate d’acqua” che popolano le strade metropolitane, con lo sguardo perduto verso gli “sfregi e le usure del tempo passato”. Domenico vive la propria condizione di cane sciolto quasi con una sorta di fierezza ed orgoglio e, con divertita ironia, riesce a sorridere e “compatire l’altrui disagio, abituato da tempo a digerire l’indifferenza umana”, lui, come “i neri della Luisiana”, relegato nella casta degli “intoccabili indiani”.
Nel suo tragitto, giunge, quasi inconsapevole, al luogo che è ormai dimora e rifugio di tante anime perse, la stazione ferroviaria. Lì, nei giardini di fianco, “brillanti e freschi” di pioggia, avviene l’incontro: un “libero professionista della propria dimensione” e un essere con “collare e guinzaglio”, l’abito buono e le scarpe nere, pulite, lucide.
E, in quell’incontro improbabile, si consumano gli ultimi momenti: una giacca “di lana fine” abbandonata su una panchina, mentre un corpo penzola da un ramo, ed una “giacca consunta sul pavimento, macchiata sul taschino… con “l’ultima scheggia di vetro di una bottiglia infranta”.
Il racconto è narrato con una visibilità che diventa visionaria, in uno stile che segue il filo di un pensiero concatenato, mai sciolto o affidato alla libera associazione. Due personaggi sineddoche, dove la parte – le scarpe, la giacca – diventano il tutto. Ogni cosa è vista dal di fuori, descritta da un narratore che non è nemmeno onnisciente, è solo un occhio, una cinepresa. Le persone diventano cose – “le scarpe nere, pulite, lucide, parallele e asciutte” – gesti di diverso spessore e assorbenza d’acqua.
Fondamentali i rumori: della pioggia, delle voci. Magistrale il pezzo dialogato, i toni sono, di volta in volta, rauchi o dolci, come “raspa nuova su legno duro”, come “gesso morbido su lavagna nera.”
Patrizia Poli e Ida Verrei
Per leggere il racconto
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