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Laboratorio di Narrativa: Marianna Garofalo

Creato il 28 giugno 2013 da Patrizia Poli @tartina

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Ormai va di moda la dissoluzione della trama e uno stile fatto solo di parole che suonano bene una accanto all’altra. Non fa eccezione “Cielo seppia” (bel titolo!) di Marianna Garofalo. Purtroppo oggi i racconti sono tutti prodotto del bisogno di facile espressione, da intendere come “superamento” della narrativa tradizionale, con ambientazioni e personaggi indefiniti, atmosfere surreali e simboliche e una sovrabbondanza d’individualismo. Ma un racconto, a nostro modesto e antiquato parere, dovrebbe ancora, appunto, narrare, avere un intreccio benché minimo, una storia, una evoluzione da un prima ad un dopo.
Che poi, alla fine, in mezzo a questo stile ultrafanico e poetico, c’è sempre la solita sostanza: per lui il sesso e per lei l’amore. La protagonista è preda di una pazzia che la travolge, il richiamo di un maschio byronico, magari un amante clandestino dalla personalità vampiresca, succhiatrice di energie. È forse una memoria che irrompe nella mente, nei sensi e nel cuore. O è forse un dopo-addio, un’allucinazione consolatoria che non lenisce ma stravolge e confonde percezioni e reminiscenze, sogni e frammenti di realtà: quasi una follia, “che può accadere o ci si può andare incontro”. La storia di un posto che resta vuoto, di un’assenza di cui “continua l’eco…”
Le immagini sono frammentate e rifratte come in un quadro di Picasso. “Solo il grigio freddo e gli alti rettangoli di vetro restavano di scenografia ad un angolo dipinto nella memoria dove il protagonista animato fissava l’azzurro tracciato sugli occhi e quegli occhi fissavano gli occhi.”
L’autrice si districa con una certa abilità tra immagini e parole, che suonano, però come una ricerca espressiva artefatta, simile a un’esercitazione di scrittura creativa. La forma è buona e corretta; qualche ripetizione e qualche assonanza appesantiscono lievemente il ritmo, piccoli scivolamenti che con una rilettura attenta si sarebbero potuti evitare.

Patrizia Poli e Ida Verrei

Cielo seppia

Sole e vento sul viso, le mani fredde nascoste tra le maniche e le tasche piene di fogli di carta, stava in piedi retta da una forza misteriosa che le teneva i piedi incollati a terra.
Ed era costante il senso di precipitare nel vuoto ogni volta che il sole era lì in pieno inverno, e le faceva pensare al suo sole senza volto, fisso negli inverni dell’anima.
Il traffico per le strade, la gente, le vetrine colorate di maschere, tutto camminava negli occhi come elettrodi impazziti, come il tracciato encefalico di un demente.
Fisse, le pupille nell’aria non rispondevano ai comandi, cercavano l’irrealtà tra ciò che si può vedere. Inquiete, le mani fredde accarezzavano l’astratto tra ciò che si può toccare e cercavano la porta dell’altra dimensione.
Era quella la prigionia più crudele in cui l’anima potesse perdersi, dietro le sbarre del suo corpo legato dai fili del concreto, e l’anima era un demone che si dimenava senza mai trovare pace tra le mura grigie di ciò che tutti chiamavano “vita”.
Quale maledizione si era riversata su di lei perché potesse guardare oltre ciò che per molti era ignoto? In quali assurdi meandri si era incamminata la sua mente per giungere in quel luogo indefinito?
Quanti passi mancavano ancora per la completa pazzia? Pochi. E si chiedeva cosa fosse ad impedirle di compierli.
La pazzia può accadere, o ci si può andare incontro, a lei era accaduto e ci era andata incontro. Contemporaneamente.
Ed era sconsideratamente bella quella pazzia che vedeva in lontananza ad aspettarla, bella e malvagia come un vecchio stregone trasformato in angelo, bella e pericolosa come il mare calmo prima della tempesta.
Viaggiava veloce il suo corpo, dietro vetri sporchi, sotto la pietra che sfrecciava indisturbata e la portava via. Ma più veloce, l’anima, era già fuggita su sfondi bianchi di ciottoli e colonne.
Lui era lì, ad aspettarla nel tempo come se non si fosse mai mosso, come se la sua ombra disegnata a terra dal sole debole del mattino fosse stata macchia indelebile nei secoli, per secoli.
E si chiedeva quali fossero i suoi pensieri dietro lo sguardo serio, cosa guardava dentro quegli occhi così comuni, su cosa la loro luce si oscurava, su cosa brillava.
Lui, distratto, ora sorrideva, e sorrideva come se la carne del suo viso fosse ancora vera e mostrava nell’aura il ricordo di un abbraccio che gli aveva lasciato addosso assenza, e di quell’assenza continuava l’eco dietro le sue parole, e lei assordata dal fischio di quel suono fingeva di non sentire per non risvegliare ciò che per troppo tempo aveva dimenticato.
Gli occhi affranti lo guardavano raccogliendo ogni frammento che da lui si staccava, per conservarlo e ricomporlo quando il vuoto le avrebbe stretto la gola fino ad ucciderla e non ricordava quante volte già era morta, non teneva più il conto di quante volte si era arresa, e inerte si era lasciata portar via la vita.
Scuoteva il capo e le labbra sorridevano sotto il tetto degli occhi smarriti. L’avrebbe abbracciato adesso se solo lui gliel’avesse permesso.
E sentiva ancora i suoi capelli solleticarle il naso, ne respirava il profumo, qualcosa le pungeva una guancia e lei sperava ne restasse il segno al risveglio, come fosse un sogno, ma era sveglia, e camminava per strada urtando la gente come fosse ubriaca.
Era sparito, e gli occhi di lei arrancavano in quella cartolina di città storica come se d’improvviso il cielo fosse color seppia.
E il tempo aveva steso un velo sul mondo alterandone il consueto scorrere.
Dentro di lei, il suo nome, urlava e viaggiava a due metri dal suolo, percorreva strade, attraversava la piazza al sole, saliva le scale umide, ascoltava le voci dei ragazzi e poi lì, davanti al grigio di mura secolari lui la aspettava ancora e tutto il mondo spariva.
Solo il grigio freddo e gli alti rettangoli di vetro restavano di scenografia ad un angolo dipinto nella memoria dove il protagonista animato fissava l’azzurro tracciato sugli occhi e quegli occhi fissavano gli occhi e lei sorrideva respirando il sapore di un giorno che nascose in un pugno per portarlo a casa e conservarlo nelle sue scatole di cartone.
Gli chiese di fermare il tempo e lui bastò un pensiero per deviare la legge del mondo e la mano nella mano tra il freddo degli anelli la accompagnò per le strade e fuggirono via da ciò che era passato compiuto per disegnare il futuro in un luogo che è tra la terra e il cielo.
La plastica nera del metrò sotto i piedi, sentiva i suoi passi ma non lo vedeva. Era fede assoluta da sorridere ancora nel sentirlo parlare e giocare, lui era lì e metteva piede tra la folla per cercare insieme a lei un posto nascosto per poterla abbracciare.
Le spalle contro i muri gialli e lui così, stretto a lei, a lei che in un attimo era sotto le sue labbra timorose, poi passionali, a lei che invocava Dio perché quell’attimo restasse eterno, ma doveva andare e gli sfregava le labbra per cancellarne le tracce.
Uno sguardo malinconico dal finestrino, e le spalle che non si voltarono.
Un treno che percorreva il mondo raccogliendo luoghi, persone, voci, pensieri …
un treno con un posto vuoto,
e un altro posto vuoto,
accanto a lui.

Marianna Garofalo



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