Laboratorio di Narrativa: Nicola Bibolotti

Creato il 26 luglio 2013 da Patrizia Poli @tartina

Ha un buon titolo e uno stile efficace questo “In memoria di C.B.”, di Nicola Bibolotti.

La storia è originale, un piccolissimo spaccato di vita: una  giornata d’estate, tre amici che suonano in una band o ruotano attorno ad essa, di cui il trombettista è strafatto di droga al punto da spezzarsi un ago nella coscia e maciullarsela con una lametta nel tentativo di recuperarne lo spuntone. Una sequenza di azioni frenetiche, ansie, timori e speranze, in un pomeriggio estivo allucinato; una sorta di corsa contro il tempo, una scommessa con l’imprevisto e l’imprevedibile.

La voce narrante, un amico o forse un agente di pop star viziate e viziose,  oppure soltanto impaurite dal successo e dal talento da gestire, deve affrontare e risolvere l’improvviso problema di un musicista drogato e sanguinante: un ago spezzato nella coscia, una ferita di lametta nel tentativo di recupero del frammento rimasto nelle carni. E l’impossibilità del ricovero in ospedale: bisogna evitare la pubblicità negativa. Sembra che il destino si accanisca, il medico di fiducia è ubriaco, non può intervenire, ma il caso risolve il problema: il frammento metallico è all’improvviso tra le mani del musicista. Una medicazione di fortuna e un lungo sonno rigenerano la star, le consentono di “regalare un’altra serata alla storia”.

Dietro c’è tutta la trama – una band dedita alla buona musica e agli stravizi, un’amicizia maschile forte e solidale – ma noi vediamo solo fotogrammi, attori in movimento su un palco ristretto, come se tutto stesse nel gesto di togliersi l’ago spezzato dalla coscia sanguinolenta, come se non ci fossero un prima e un dopo, un legame fra i personaggi e delle motivazioni per i lor gesti. A noi interessa l’istantanea, l’azione immediata, avulsa dal contesto.

Il dottore, ubriaco fradicio e impotente, è l’unico a essere indicato da un nome e non da un’iniziale. Gli altri personaggi, il narratore, il protagonista e l’amico, sono delineati con semplici lettere. Eppure, il dottore, abbandonato nel sonno, sembra un manichino, quelli vivi sono i tre innominati, tenuti insieme da un altro protagonista, attorno al quale tutto il resto ruota e per il quale vale la pena andare avanti ed essere alleati: la musica, rappresentata dalla tromba Martin, con la sua campana lucida avvolta nella carta di giornale, quasi a mimetizzarne la spiritualità, l’afflato che tutto riscatta.

L’autore offre un gustoso affresco di un mondo: pochi tratti e ti sembra di vederlo il musicista che si “è fatto una pera” e si “è sbranato una gamba con una lametta”; o la stanza con i posacenere colmi di sigarette e la Martin incartata; mentre pensieri, ricordi, paure, si accavallano in un ritmo che, insieme al linguaggio, dà al racconto accenti di verismo e lirismo insieme. Ed ecco che da tre iniziali, da un accenno alla Pacific Coast Highway, dall’afa di un pomeriggio di Luglio, sorge l’immagine a di una jazz band nostrale, di vite che – seppur segnate dalla negatività della droga – trovano nella musica il loro affrancamento, l’espressione “del soffio profondo” della loro anima.

Patrizia Poli e Ida Verrei

In memoria di C.B.

Quando aprii la porta di casa e lo vidi seduto sulla sedia con in mano una lametta ad armeggiare attorno alla coscia proprio all’altezza del femore, non mi ci volle poi molto per capire che cosa era successo. Ai piedi del tavolo, tutta intrisa di sangue, giaceva ancora la siringa con l’ago spezzato. Poco più in là, sul pianale di marmo della cucina vicino a un posacenere stracolmo di mozziconi e a una bottiglia avviata di whisky, avvolta nella pagina del giornale locale, faceva capolino la campana d’ottone della sua Martin. Quella sera lui e N. avrebbero dovuto suonare assieme a F. in un famoso locale della zona e adesso, come se già a rompere le scatole non bastasse questa cazzo di afa, con la gamba conciata a quel modo sarebbe stato un vero e proprio casino. Merda! Senza perdere un altro momento arraffai il primo straccio che riuscii a trovare a portata di mano e iniziai a tamponargli la ferita. S’era fatto proprio un bel taglio. Dopo avergli ripulito per bene tutta la gamba gli chiesi come adesso avrebbe voluto risolvere la faccenda. La punta dell’ago era ancora dentro, lo squarcio era lungo e profondo e io gli feci notare che non ero né un sarto e né tanto meno un dottore. Dopo aver posato la lametta sul tavolino C. sbirciò di sottecchi la sua tromba e mi disse: <<l’importante è non andare all’ospedale>>. Con un marcato accento americano, anche se batteva sulla sessantina, aveva ancora il tono della voce che profumava d’adolescenza, di belle ragazze e di sfreccianti macchine veloci con la cappotta abbassabile.

Su questo, guardandolo dritto negli occhi, gli sussurrai che non avevo alcun dubbio. Un altro di quei titoloni sul giornale ora era l’ultima cosa di cui C. aveva bisogno. L’ultima volta, infatti, circa una ventina d’anni prima, una faccenda del genere era finita con un lungo periodo di ferie a San Giorgio. Dalla porta di casa entrava una sbarra di sole grossa quanto una trave; e mentre io me ne stavo in quella cucina con un amico strafatto e con una gamba ridotta a brandelli tra le mani,  là fuori come se tutto questo fosse normale il mondo proseguiva a festeggiare l’estate. Buffo, pensai. Ma non c’era un momento da perdere, il sangue continuava a sgorgare copioso dal taglio e lo sguardo di C., forse per la roba o forse per il troppo plasma perduto o forse per entrambe le cose, sembrava stesse preparando i bagagli. Dopo avergli fasciato alla meglio la gamba con uno straccio pulito, lo trascinai fuori di casa e lo imbarcai subito in macchina. Sistemato sul sedile del passeggero ingranai la prima e in mezzo a nuvolaglie di biciclette e sorridenti cosce abbronzate, mi diressi verso lo studio del dottor Moscardini. Da lì era lontano giusto cinque minuti. Durante il tragitto C. tolse la benda e riattaccò ad armeggiare attorno allo squarcio a caccia del piccolo inquilino d’acciaio; e dopo avermi ribadito ancora una volta di non voler essere portato per nessuna ragione al mondo all’ospedale, mi disse di stare tranquillo che nella sua vita ne aveva passate di peggio. Come quando quella volta in America un nero a cui doveva dei soldi gli fracassò la bocca con una sassata e dovette così  imparare a suonare la tromba senza i denti davanti. Queste sono mica cazzate, altro che un aghetto troncato in una gamba. Arrivati allo studio del dottor Moscardini parcheggiai la mia 126 e lo aiutai a scender di macchina. La ferita era stata riattizzata e la gamba di C. era nuovamente tutta sporca di sangue. Nonostante la cappa dell’afa, magliette sudate e appiccicate alla pelle e odore dolciastro nelle narici, erano le uniche due cose che quel giorno non avevo messo nel preventivo. Quel pomeriggio morso dal sole di luglio - pur se quelle  non erano le spiagge della Pacific Coast Highway infatti lo ero andato a trovare per dirgli soltanto se voleva venire al mare per darsi una rinfrescata e bersi una birra. E invece, dopo neanche dieci minuti, mi ritrovai a bussare come un forsennato all’ambulatorio del dottor Moscardini coi colpi che rimbombavano cupi a mo di mitraglia nel vuoto dello studio. Non c’era proprio nessuno, nemmeno un paziente. Tutti, compresi i virus e i germi, avevano ben ragionato d’andarsene al mare. O meglio: tutti tranne C.B. Stufo di star a sbucciarmi inutilmente le nocche su una porta di legno massello e stanco di veder C. rantolare attorno ai brandelli di quel cazzo di taglio, abbassai la maniglia e di peso lo trascinai dentro. Ma non feci neanche due passi e subito m’accorsi che quel pomeriggio avevo decisamente tutto l’oroscopo contro: ubriaco come una giubba il dottor Moscardini ronfava sdraiato braccia a croce sopra la lettiga del suo ambulatorio neanche fosse un leone che s’è appena sbafato un rinoceronte africano. Neanche a farlo apposta, con una maglietta colorata e dei pantaloni bianchi di lino, quel figlio di puttana sembrava proprio un turista. Fasciati da due mocassini i piedi gli sbordavano fuori dalla lettiga e i raggi del sole che filtravano dalla grossa vetrata, dopo aver rinterzato sul bianco delle pareti, andavano a sbattergli sul viso facendogli pure oscurare le lenti degli occhiali da vista. Cazzo, sì: pareva proprio un fottuto bagnante. Non sapendo che fare misi C. a sedere sopra la sedia di pelle che si trovava dietro la scrivania e incominciai a scrollare il dottore. Niente da fare, come morto. Al solo pensiero che adesso sarebbe potuto entrare qualche paziente, mi misi a ridere quasi da pisciarmi nelle mutande. Avere C.B. come medico quando non era alle prese con la sua Martin, era sicuramente una faccenda che non avrei augurato neanche al mio peggior nemico. Improvvisamente però mi prese il nervoso e proprio mentre stavo pensando di andarmene mollando lì entrambi i bastardi a smaltire da soli i loro viaggi, vidi C. alzare al cielo la mano tutta intrisa di sangue. Incollato sul dito indice aveva il pezzo dell’ago che frustato dai raggi del sole brillava come un diamante. Dopo aver tirato un sospiro di sollievo e lasciato il dottor Moscardini al suo sonno animale, aprii la vetrina dove teneva le medicine e in mezzo a una miriade di scatolette di pasticche e flaconi, tirai fuori un kit da pronto soccorso. Dentro fortunatamente c’era tutto quel che serviva: acqua ossigenata, bende, garze e cerotti. Medicai alla meglio la ferita al mio amico e una volta alzato di peso e trascinato nuovamente fino alla macchina, dopo qualche minuto già era bello e che steso nel suo letto che ronfava peggio del dottor Moscardini. Adesso finalmente potevo andarmene a fare quel cazzo di bagno al mare. Prima di uscire di casa e rimontare sulla 126 per recarmi alla spiaggia presi una sigaretta da un pacchetto di Marlboro che C. aveva lasciato accanto al posacenere pieno di cicche, mi feci un goccetto di whisky e accarezzai la campana della Martin che fuoriusciva direttamente dalla carta stampata. Toccare con mano quell’astruso marchingegno che tutte le sere trasformava l’angoscia in un qualcosa di tenue, soffice e caldo come il velluto, fu un emozione che francamente non so riportare nero su bianco. Con la colonna vertebrale scossa da un milione di piccole scariche elettriche che mi s’irradiavano lungo tutti i muscoli del corpo  uscii di casa, per farvi poi ritorno con N. solamente qualche ora più tardi. L’orizzonte del cielo infiammava d’arancio e una sottilissima brezza di grecale ridonava al mondo e agli abiti svolazzanti delle signore un po’ di quella frescura che il sole gli aveva tolto durante tutta l’intera giornata. Trovammo C. già pronto con la Martin ancora avvolta nella carta del giornale sotto braccio che impaziente ci stava aspettando. Aveva l’aria riposata il bastardo, tranquilla come se anziché essersi fatto una pera e sbranata una gamba con una lametta da barba, fosse quel pomeriggio davvero venuto al mare con me a farsi un bagno e a bersi una birra. Andammo così a mangiare nella solita pizzeria sul Viale a Mare dove F. ci stava già attendendo da quasi mezz’ora.  Dentro a quel locale pieno di gente, durante la cena, di quanto avvenne quel pomeriggio io e C.  non ne facemmo parola. Mai e poi mai i fatti fin qui raccontati sarebbero entrati a far parte di un qualche ricordo comune o un paragrafo di una biografia a lui dedicata. I fatti accaduti quel caldissimo giorno di luglio dovevano essere il nostro segreto. Poi dopo circa un’oretta, sotto un cielo fresco e trapuntato da stelle lucenti e affilate come milioni di gemme, C., N. e F. salirono sul palco davanti a una folta e abbronzata platea agghindata in succinti abiti a fiori. E il soffio profondo dell’anima di C.B. consegnò un’altra serata alla storia.



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