“La testa” di Valentino Appoloni è un racconto surrealista, scritto da chi non vuol lasciarsi imbrigliare in una forma fissa nemmeno quando scrive, è un racconto cerebrale, “di testa”, appunto, come dice il refrain insistito dal titolo al finale.
Un giovane corre verso il lavoro, è trafelato, ha paura che il principale gli faccia una lavata di capo. Ha voglia, però, di lasciarsi andare, di ascoltare le intriganti “sirene della vita perduta e della giovinezza”, respirare libero in una radura. Ma non può perdere la testa, deve rinsavire, rientrare nel ruolo che la società gli impone.
La realtà tuttavia è distorta, è onirica. La discesa folle con l’auto è simbolo di una vita senza riposo e forse senza senso o meta, la testa che il protagonista non può perdere appare ovunque, come un segno che lo perseguita, si materializza in una palla, compare infilzata su un palo, si condensa in una nuvola, s’imprime in un lenzuolo e lo trasforma in sudario. La corsa ha in sé qualcosa di futurista, di marinettiano, ma non è ebbrezza, bensì condanna, solo in parte liberatoria.
È una sorta di poesia surrealista tradotta in prosa, questo racconto, e di una poesia aspra e non consolatoria ha le caratteristiche, con ripetizioni, assonanze e allitterazioni poco gradevoli: scese lungo una discesa, asciugare e asciugamano
Patrizia Poli
LA TESTA
Il lavoro prima di tutto, gli era stato ripetuto più volte fin da ragazzo. Ora Chevas, uomo fatto, guidava la sua auto con trepidazione. Quel mattino era in ritardo e già si aspettava una lavata di testa dal principale. Scese lungo una discesa incurante dei limiti di velocità. Detestava la sensazione di vuoto che gli dava il dover correre, ma non c’era scelta. Abbassò i finestrini, poi li richiuse. Col pensiero era già oltre quella curva in fondo alla strada, dove le alte piante parvero aprirsi come per accoglierlo e farlo passare. C’era una radura là in fondo e probabilmente era un posto gradevole dove si poteva correre e respirare bene. Per qualche secondo rimase assorto in questi pensieri rischiando di andare diritto e uscire di strada. Le sirene della vita perduta e della giovinezza lo chiamavano. Ma aveva ben altra meta. Sterzò bruscamente e cercò di riprendersi.
Un paio di ragazzini giocavano in un cortile vicino con qualcosa di tondo. Sembrava una testa. Poi venne la zona dei campi; alcuni lunghi tralci ondeggiavano mossi da un vento sempre più forte. Chevas guardo l’orologio. Ormai corro da una vita, pensò. Davanti a lui un’auto rallentò. Dovette superarla e mentre lo faceva diede uno sguardo ai campi. Notò per un attimo dei pali alti; gli sembrò che sopra ci fossero infilzate delle teste con i capelli ancora in movimento. La stanchezza ti devasta, si disse. Quel giorno tutto era ingarbugliato, ma in fondo gli sembrava di vivere da sempre un lunghissimo giorno, senza notte e senza riposo.
“Sto arrivando!” urlò spazientito a un interlocutore invisibile.
Lungo la strada, un bambino che passeggiava con un uomo lo indicò; poi abbandonò l’adulto e per qualche metro rincorse la macchina di Chevas che fece un gestaccio.
Superò il ponte di slancio, poi costeggiò l’Hotel Medusa, sempre a gran velocità. Ebbe qualche momento per guardare il cielo. Una nuvola incredibilmente tondeggiante sembrò precipitare in verticale, liberando il sole. Chevas venne abbagliato.
In un condominio avevano lasciato dei panni ad asciugare su un terrazzino; un enorme asciugamano bianco si staccò, rimase per aria immobile per qualche istante, prima di ricadere lontano. C’era sopra l’immagine di un volto umano e lui ne ebbe un brivido. Guardò ancora l’orologio e poi fece per toccarsi il capo, ma ritrasse subito la mano e la ripose sul volante.
“Che importa!” gridò. Il suo ritardo era aumentato.
Un vecchio gli urlò qualcosa agitando il bastone. Cosa avevano tutti quel giorno? C’era elettricità nell’aria. Riaprì il finestrino e sentì qualcosa cadere sull’asfalto e rimbalzare. Finalmente vide la chiesa di S. Paolo ed emise un sospiro di sollievo. Era quasi arrivato al lavoro.
Appariva sgomento, agitato, trafelato come se avesse corso e non guidato, ma almeno era giunto alla sua meta. Il capo gli venne incontro, seguito da un paio di operai e senza avvicinarsi troppo esclamò: “Chevas, cosa combini? Hai perso la testa?”
Valentino Appoloni