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Laboratorio di Narrativa: Wania Viola

Creato il 17 gennaio 2013 da Patrizia Poli @tartina

gu911Più che un racconto, “Il viaggio”, di Wania Viola, ci appare come la cronaca di una giornata qualunque; piccolo stralcio di un diario, forse. Oppure semplicemente il resoconto di una breve gita turistica, uno di quei tour organizzati che si risolvono spesso con un senso di tristezza e di solitudine, non colmata dagli occasionali compagni di viaggio. Protagonista il gruppo, persone comuni che condividono lo spazio all’interno di un pullman, tra sgranocchiate, sbuffi, soffiate di naso, spintoni: una lotta per la sopravvivenza pacifica. E poi i luoghi, Ancona, con le sue piazze, le fontane, i monumenti, le bancarelle; e la gente, gli indifferenti abitanti del posto, “per tutto simili” ai turisti intruppati dietro la “virago” gracchiante che fa da guida.
Ma, più che un racconto, “Il viaggio” di Wania Viola, è l’esplorazione di una possibilità, quella di vedere il consueto con gli occhi dell’inconsueto. La protagonista scende da un pullman affollato di turisti, s’inoltra per le vie di una città, visitandola, tenendo gli occhi - non bassi e frettolosi come chi ci vive - ma all’altezza cui la tengono comunemente i turisti, gli “esterni”. Vede quei particolari che gli abitanti del luogo non vedono più. Un indizio, però, non deve sfuggirci, lasciato cadere ad arte nelle prime battute: l’idea che il gruppo dei nuovi arrivati è “in tutto e per tutto simile agli abitanti del posto”. Camminando lungo il corso, guardando distratta le vetrine, la protagonista ha un dejà vu, che può essere inteso in due sensi: da una parte le vetrine ormai sono le stesse un po’ovunque, dall’altra c’è un vero e proprio di già visto, di già vissuto. Perché Wania Viola è di Ancona. Se non lo sapessimo, lo intuiremmo dall’affetto che mostra nel descriverci la sua città, riappropriandosi dello stupore di chi la vede per la prima volta.
Non è un racconto, ripetiamo, ma una dichiarazione d’amore che infonde un senso di pace, di un vivere ancora a misura d’uomo.
Gustose le descrizioni dei personaggi, fatte con vivacità ed ironia. Il testo è ben scritto, con cura e pulizia anche nella forma grafica, cosa che, di questi tempi, non è scontata.

Patrizia Poli e Ida Verrei

Il viaggio

- Ricordatevi di prendere i bagagli a mano e tutto quello che vi può essere utile. Il pullman andrà al parcheggio e tornerà a riprenderci stasera! - gracchia l’insopportabile voce dell’accompagnatrice. Chissà dove ho sentito dire che le hostess sono tutte belle, gentili e cordiali. Forse in un film. La signora seduta al mio fianco sbuffa, prende il ventaglio, si alza con fatica sul ventre grasso, raggomitolando nello sforzo il doppio mento in tre ciambelline parallele, raccoglie in un mucchio le riviste che ha sfogliato fino allora e le lascia ricadere sul sedile al proprio posto, quindi, incurante della mia presenza, si fa strada a spintoni per uscire, trascinando con sé il mio impermeabile. Non dico niente, non ho più parole: è dall’inizio del viaggio che cerco di sopravvivere al suo continuo sgranocchiare, sbuffare, soffiarsi il naso e raschiare la gola.
Finalmente scendo anch’io. Mi accoglie una piazza abbagliante di luce, abbastanza grande, rettangolare. Bei palazzi tutt’intorno, secondo me dell’ottocento; da un lato una fontana monumentale con quattro cavalli di marmo bianco. Cerco l’orologio. Ci sono sempre orologi che vegliano sulle piazze. Eccolo, infatti: tondo, incorniciato di scuro, non particolarmente appariscente sulla facciata del palazzo di fronte. Segna le undici e dieci. Ho fame. Una metà della piazza è affollata di bancarelle multicolori: avrei voglia di dare una sbirciata. Si finisce sempre per concludere qualche affaruccio. È pieno di gente che va e viene, prevalentemente donne dall’aria casereccia. Non una che ci noti. In effetti abbiamo ben poco da farci notare: non siamo né troppo stanchi e sfatti dal viaggio, né originali nel vestiario o nell’attrezzatura, né abbiamo i lineamenti slavati dei turisti nordici, che bene o male uno li guarda lo stesso. Siamo in tutto e per tutto simili agli abitanti del posto e passiamo tra loro inosservati.
Il gruppo si raccoglie attorno all’accompagnatrice. Ci guiderà a vedere il porto, poi il duomo, annuncia. Che bellezza di programma! Siamo una ventina, tutti adulti e non mostriamo particolari segni di entusiasmo quando ci incamminiamo in fila più o meno scomposta dietro la virago, che ogni tanto si volta e ci gratifica con un “coraggio” urlato a tutta forza. Adesso sì che si voltano! Non credo per ammirazione.
Ci incamminiamo per quello che pare il corso cittadino, con negozi e banche. C’è pure la Standa. Guardo le vetrine: dejà vu. Che mi aspettavo? Non è certo una città esotica quella che sono venuta a visitare. Si respirano ordine e laboriosità, come in altre città delle Marche. La faccia della gente è indifferente, ma buona; i movimenti e il modo di camminare non danno la sensazione dello stress urbano.
In fondo alla via si apre un’altra piazza e poi giù, verso il porto, a pochi passi. Finalmente mi stupisce il mare! Mi sento come una bambina. Davanti a noi, dietro il sipario di alcune grosse navi all’ancora, si apre l’ampio golfo, come un gomito, che dà nome alla città: Ancona. La giornata è limpida e si scopre la costa stagliata di netto sul mare smagliante fino a Fano. Le linee dolci del paesaggio infondono serenità; mi dispongo a guardare più attentamente i dettagli della costa quando: “Guardate, a destra i cantieri navali, - mi distoglie l’acuto dell’accompagnatrice - a sinistra la zona industriale e le strutture dell’Ente Fiera; sempre a destra, sotto il colle Guasco, l’arco di Traiano, che l’imperatore fece costruire prima di partire per la Dacia; ancora più a destra l’arco Clementino, costruito in onore di papa …” E continua a stridere. Ma dove l’hanno trovata? Qualcuno la fermi! Volgo lo sguardo verso l’alto, al nominato colle Guasco, e vedo ergersi come su un piedistallo di roccia a strapiombo sul mare, nella purezza delle sue linee romaniche, il duomo. Sul fianco verde del colle si snoda serpeggiando la via di accesso, simile, nella distanza, ad un sentiero. L’ampio portale è rivolto verso il mare e l’intera costruzione, pur solitaria e distaccata, non sembra dominare come una fortezza fiera ed imprendibile, ma dà piuttosto l’impressione di spiare, sorniona e bonaria, accattivante come una comare, il nostro gruppo di turisti per un giorno. Intanto ci avviamo dietro all’accompagnatrice, che imperterrita ci strombetta nelle orecchie la promessa dello splendido e ineguagliabile panorama che ammireremo di lassù.

Wania Viola



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