Ci sediamo distratti. Tutti in riga davanti a bicchieri troppo graffiati. Fuori la città fa a gara per andare più veloce del fine settimana. Ci conosciamo, non ci conosciamo. Sono così le persone, anche quelle memorizzate nelle tasche, più o meno fino all’amico dell’amico. Le borsette scompaiono dal tavolo, qualcuno si fa le pause sigaretta ancora prima che arrivi il primo. Così, con poco da dire, così fragili da non sostenere il peso del silenzio illuminato dai cellulari.
“Lo sapevate che lui fa lo scrittore”? Cerco il modo per cambiare argomento, non perché mi vergogni ma non son quel tipo che scrive libri per avere un argomento, per essere presentato con più facilità. Scrivere è un modo di essere e se con quell’esigenza non ci sei nato ti sei solo adattato. È un modo di guardare nelle cose e raccontare. Come i fotografi, i pittori. Quelli che chiamano artisti quando diventano famosi e ogni volta ti viene da dire “ci sono passato davanti tutte le volte e non ho mai visto quanto fosse bella questa mattonella di vita”. Perché è pieno di belle versioni della stessa cosa. È bello guardare. E quindi sono lì, sulla mattonella, in equilibrio, aspettando un pavimento intero che non arriverà mai. “Chiara ma lo sai che è bravo… com’era il titolo del tuo ultimo libro”? Forse non interessa a nessuno, forse non a chi ha letto come ultimo libro uno che iniziava con “c’era una volta“.
“Com’è che non l’hai comprato”? Dico. E finiscono così i sorrisi serviti per cena e arriva barcollando il cameriere con un sorriso che è uno stereotipo più che un sorriso, che invece tornerà tra qualche centinaio di piatti consegnati, sopra il divano casa e sotto una birra. Ma in fondo, noi, tiriamo la corda del carillon con i nostri “ti vedo bene”, “come sono andate le vacanze”? e “ti trovi bene con la nuova macchina”? Giriamo una sera, uguale alle altre, stessi spettatori e facce diverse fino a che ci portano il conto. Questa normalità non ci spiazza più, pagheremmo oro per essere ragazzi sbandati e non essere in cresciuti in famiglie bene dove ci sono un sacco di cose obbligatorie da fare per farsi, in fondo, disorientare. Vorremmo essere pezzi di un domino in attesa di precipitare, ovunque, per colpa di qualcosa su qualcos’altro o per colpa di qualcuno su qualcun altro. Invece. Invece siamo pezzi di puzzle, circondati e non possiamo saltare fuori a comporre altre figure. Invece.
Le quattro frecce lampeggiano, scatta la centralizzata. Tutto ci ricorda come dobbiamo fare per tornare a casa, che non è poi così lontana, non è mai stata davvero lontana e non è mai neppure stata nostra. Non ce la siamo ancora guadagnata, come i nostri padri. L’abbiamo solo occupata. Come le cose che sono a portata. L’unico diritto è pagare, per usare, senza senso.
Lei mi scaglia un sorriso di quelli che vogliono riempire gli angoli, della bocca, della serata. Al tavolo non l’avevo fermato quel sorriso, o forse non era passato. Ma già che l’hai affisso su questa costellazione vicina che ci cade addosso lo guarderò più da vicino. Argomenti. Rebus.
“Allora ci si vede”. Tu li conosci i sorrisi uno dentro l’altro, sì, tu li conosci. L’occhio cade dove non si deve rialzare, il cuore batte dove il vuoto duole.
Bastava così poco per rivoltare il cuore, e non è niente. Non è mai qualcosa se lo racconti, solo lo ammetti. Se lo reputi così possibile da dedicarci la cosa più preziosa che hai: il tempo. Ma poi. L’unico diritto è pagare, i fine settimana non fermano la vita e ci riempiremo ancora di giorni feriali. Di pensieri. Quei pensieri, quegli spifferi, quei lacrimoni già sul finale. Con questo settanta percento di cose da dimenticare, un quindici per cento di cose da posticipare, un dieci di cose da sperare e il cinque per cento da vivere. Io guardo gli angoli vuoti che mi son rimasti, qui a casa mia, che ovunque è una casa mia ancora da fare. Mi ammazzi coi miei pensieri. Su questa mattonella di vita che non assomiglia per niente alle altre.
Pensieri, spifferi, che mi tengono in equilibrio.
E non posso scappare con questi lacrimoni già sul finale.