Giovanni Berardi e Lando Buzzanca
Lando Buzzanca un tempo era chiamato l’ homo eroticus del cinema italiano. Come tale, dunque, nelle sue pellicole era sempre circondato da donne bellissime, ora mogli, ora amanti, ora amiche, sempre femmine comunque che non vedevano l’ora di farsi amare proprio da lui. Era un cinema davvero “bello a vedersi” dietro queste aspettative, e salutare per la generazione come la nostra, quella che aveva all’incirca tredici-quattordici anni nei primissimi anni settanta, gli anni cioè in cui cominciava ad esplodere in sala il cinema decisamente “più riconosciuto” e “più consumato” di Lando Buzzanca attore.
Buzzanca rimane certamente l’attore più riconoscibile degli anni settanta, quello che certamente ha messo d’accordo più di una generazione di spettatori. Addirittura due fumetti, negli anni fatidici, della Renzo Barbieri Editore, il Lando e Il montatore, si sono ispirati a Buzzanca, il primo alle sue gesta, pur mantenendo nella fisicità il viso raffigurante Adriano Celentano, l’altro proprio al suo preciso e corvino tratto somatico, ma entrambi ispirati soprattutto all’eco ed alla letteratura trionfante di un suo film simbolo, l’Homo Eroticus di Marco Vicario appunto, in cui Buzzanca interpretava il personaggio di Michele Cannareta, un pover’uomo siciliano trapiantato a Bergamo, nato con una “straordinaria” malformazione fisica, possedeva non due ma bensì tre testicoli, e per questo la scienza medica gli aveva messo gli occhi addosso per lo studio. Per noi, ragazzini dell’epoca, Lando Buzzanca, proprio in questo senso, è stato finanche un idolo, quello che ci ha indirizzato quasi alle gioie della sessualità più ridanciana e, tra le righe, più rispettosa e normalissima. I suoi film, comunque, normalmente vietati ai minori di anni diciotto, non ci hanno impedito l’ingresso in sala, anche se la nostra era una generazione che in quel tempo non aveva ancora, appunto, l’età giusta per accedervi, parliamo di anni, in fondo, in cui le minime leggi, le più semplici, venivano facilmente e bonariamente raggirate dalla comunità, in nome anche di una autentica, sicura, decisa libertà.
E in effetti, ripercorrere oggi la storia del cinema di Lando Buzzanca certamente significa, “storicamente proprio”, ricordare anche “come eravamo” in quegli anni tipici, semplicemente “arrapati davvero fino al midollo”, tutti. Non può esserci spiegazione molto diversa, dietro al totale successo di pubblico di quelle pellicole, che all’epoca lo spettatore vedeva sempre pieno di autentica gioia; erano pellicole sempre spassose, in definitiva semplici, prive appunto di qualsiasi effettivo mordente sociologico o psicologico o di esplicitamente politico, tanto caro al periodo, pellicole effettivamente da guardare a quattro occhi e due mani, grazie anche “alle estreme grazie”, sempre visibilmente disponibili, di Laura Antonelli, Catherine Spaak, Barbara Bouchet, Rossana Podestà, Senta Berger, Silva Koscina, Ewa Aulin, Pamela Tiffin, Marilù Tolo, Rosanna Schiaffino, Magali Noél, Katia Christina, Dagmar Lassander, Martina Brochard, Agostina Belli, Maria Grazia Spina, Stella Carnacina, Eva Czemirys, Gloria Guida, Femi Benussi.
Insomma i film di Buzzanca non pretendevano affatto di scrivere la storia del costume italiano, non facevano davvero parte della grande tradizione della commedia all’italiana, quella per intenderci, in prim’ordine, di Age e Scarpelli, Monicelli, Risi e Scola, questo almeno nella sua massima filmografia, anche se le situazioni evocate avevano la cornice adagiata proprio nei difetti tipici ed ingombranti della società, per qualcuno anzi, addirittura, adagiati nella volgarità dell’educazione italiana del periodo ipocrito-democristiano. E su questo appunto Lando Buzzanca, oggi, non è più disposto a transigere. Dice infatti l’attore: “rivendico sempre e con forza che i miei film non erano volgari o inetti, come sottolineava la critica colta nel momento culminante, semplicemente rappresentavano, in maniera più semplice possibile, la crisi imperante che il maschio viveva di fronte all’emancipazione femminile sempre più scatenata e finanche politicizzata. Non c’erano in quelle pellicole, e non li cercavamo, altri tipi di contesti, sociologici, politici o quant’altro, anche se, in qualche maniera, ne riflettevano certamente la portata. Diventava essenziale, semplicemente, mettere alla berlina la fragilità conclamata dei maschi”.
Il messaggio non fu certamente capito, pensiamo, o perlomeno accettato o condiviso perché, ricordiamo, i manifesti in strada che pubblicizzavano i film di Buzzanca, raffiguranti quasi sempre femmine in abiti succinti o provocatori, venivano regolarmente strappati e vituperati, e le azioni quasi sempre denunciate da gruppi di femministe organizzate. Ora andiamo per ordine e per gradi: gli esordi e la permanenza di Buzzanca al cinema furono decisamente altissimi: Pietro Germi, Antonio Pietrangeli, Elio Petri, Dino Risi. E poi Alberto Lattuada, Luigi Zampa, Franco Rossi, Nanni Loy, Vittorio De Sica. È un curriculum che significa molto.
Dice Lando Buzzanca: “Con Pietro Germi ci fu effettivamente il vero debutto al cinema, dopo tanta sofferenza, nel 1961 con Divorzio all’italiana. Ma il primo film da protagonista lo feci solo più in là, nel 1967, con un altro maestro, Alberto Lattuada, Don Giovanni in Sicilia”. L’esperienza con Germi, sicuramente bella ed intensa, all’inizio è stata, come ci ha raccontato Buzzanca, piuttosto snervante. Questo perché Germi amava proprio le attese, le sospensioni, il bilico. Insomma sottoponeva l’attore, e di buon grado anche, ad un forte disagio psicologico. Secondo Germi, certamente, il personaggio cresceva meglio con queste aspettative. E per un attore che doveva mangiare ogni giorno, in tempi in cui in realtà mangiava pochissimo, questa situazione non era affatto distensiva. Dice Lando Buzzanca: “con Germi si imparava davvero, decisamente sul campo, come la professione dell’attore fosse uno dei mestieri più precari al mondo. Quando ho fatto con lui il primo film, Divorzio all’italiana, ho saputo che avevo un ruolo solo pochi minuti prima di cominciare a girare. Ricordo che mi aveva convocato sul set solo per fare un provino, in qualità di contraltare all’attrice che doveva impersonare la sorella dell’attore protagonista, Marcello Mastroianni. Mi diceva Germi che stavo là solo per provare come funzionava la ragazza. Ed invece mi sono ritrovato anch’io nel cast del film. Una vera liberazione sentire dire da Germi, concluso il provino alla ragazza, “bhe, portate anche Buzzanca dal costumista”. Continua Lando Buzzanca: “dopo Divorzio all’italiana ho fatto anche Sedotta e abbandonata, penso che posso anche non dire altro”. Noi diciamo invece che davvero i film del suo esordio sono ancora di grosso impatto e di intenso spessore, di fama anche internazionale, film che ancora oggi all’estero onorano davvero il prodotto culturale cinematografico italiano. Gli esordi per Buzzanca erano ancora gli anni dei rammarici, e questo non fa che testimoniare già da allora l’attore superlativo che voleva diventare. Nonostante siano passati molti anni, un rammarico in particolare lo amareggia ancora, quello relativo al film di Elio Petri, I giorni contati, interpretato con il grande Salvo Randone. Buzzanca rammenta di avere interpretato il figlio del protagonista, una bellissima parte all’atto del copione, ma che poi in sede di montaggio il regista Elio Petri ha eliminato quasi totalmente. Dice Buzzanca: “in quel bel film della mia bella parte è rimasta solo una scena che, in quel modo, non ha significato assolutamente più niente”.
Il personaggio tipico interpretato da Lando Buzzanca, già dai suoi primi film, come ad esempio in Sedotta e abbandonata, è stato sempre quello del siciliano piuttosto ossessionato dal sesso e dalle strutture più tradizionali e chiuse della sua società. Questo ruolo ha sicuramente fatto la fortuna di Buzzanca, ma per anni ha decisamente, pensiamo, relegato il bravo attore che era (e che è rimasto) ad un ruolo decisamente fisso e ripetitivo, finanche castrato, in un certo senso, dai limiti regionali siciliani. Le ambizioni di Buzzanca resistevano, per fortuna, e già dagli esordi sapeva di valere molto di più dei personaggi che interpretava. I suoi film, in questo senso, non sono certamente da sottovalutare però, come invece ha fatto la critica dell’epoca; anche le pellicole più “consumate” di Buzzanca continuano a recare in sé, se non altro, proprio l’autorità dell’attore: Un caso di coscienza, 1970, Giovanni Grimaldi, Il debito coniugale, 1970, Franco Prosperi, La prima notte del dottor Danieli, industriale col complesso del… giocattolo, 1970, Giovanni Grimaldi, Il prete sposato, 1970, Marco Vicario, Il merlo maschio, 1971, Pasquale Festa Campanile, Homo Eroticus, 1971, Marco Vicario, Il vichingo venuto dal sud, 1971, Steno, La Calandria, 1972, Pasquale Festa Campanile, All’onorevole piacciono le donne, 1972, Lucio Fulci, Il sindacalista, 1972, Luciano Salce, L’uccello migratore, 1972, Steno, La schiava, io c’è l’ho e tu no, 1972, Giorgio Capitani, Io e lui, 1973, Luciano Salce, Il magnate, 1973, Gianni Grimaldi, L’arbitro, 1974, Luigi Filippo D’Amico, Bello come un arcangelo, 1974, Alfredo Giannetti, Il domestico, 1974, Luigi Filippo D’Amico, Il gatto mammone, 1975, Nando Cicero, Il fidanzamento, 1975, Giovanni Grimaldi.
Forse, proprio per non confondere sommariamente le idee al pubblico, Buzzanca rifiuterà nel periodo glorioso il film serio di Steno (pellicola che infatti Steno firmerà con il suo vero nome, Stefano Vanzina) che era La polizia ringrazia, 1972, che nella storia culturale del cinema italiano ha dato adito alla creazione di un nuovo e copioso, quanto fruttuoso ai botteghini, genere per l’industria del cinema tricolore, quello del poliziottesco all’italiana. Dice Buzzanca: “questo è successo quando stavo girando con Steno il film L’uccello migratore”. Ed infatti pensiamo a L’uccello migratore, un film sottovalutatissimo, come ad un film modello, che rimane un po’ lo specchio di come esattamente andava la società italiana, ed il mondo della scuola, proprio nel periodo in cui è stato girato il film. Secondo noi, L’uccello migratore è un film da annoverare e venerare sotto quell’ala alta di film che oggi possiamo definire proprio istant-movie, una qualità questa spesso centrata, in particolare, nel cinema di genere. Decisamente L’uccello migratore rimane, nella filmografia di Buzzanca, quello che lo sceneggiatore Ugo Pirro definiva come “un film del grande cinema italiano di natura antropologica”, pregno di quel tipo di grammatica cinematografica che davvero riusciva ad intrattenere, nell’arco delle due ore, il pubblico più popolare, facilitandolo inoltre, decisamente, nella conoscenza e nella crescita critica. Ormai questo tipo di cinema, bellissimo e popolaresco, non può più esistere, appartiene, decisamente, al passato, anche piuttosto remoto.
“Il Buzzanco che ama le donne a branco” proprio non ha più vita. Alla fine della serie, forse piuttosto lunga in verità, si registrava già un certo avvilimento del discorso, una evidente banalizzazione. Il gruppo di sceneggiatori e di registi che ormai venivano in successione, educati e contaminati con concetti ed esperienze diverse, certamente non sarebbero stati in grado di condividerne più la carica determinante del personaggio Buzzanca e di mantenerne intatta la freschezza. E tutto questo Lando Buzzanca lo aveva perfettamente capito. Dice Buzzanca: “ho capito che aveva ragione Vittorio De Sica. È il teatro, l’arte, che non ti abbandona mai. E dopo tanto cinema di successo potevo davvero cominciare a scegliere e l’ho fatto: ecco allora portare Shakespeare, Plauto, Pirandello, Moliere in palcoscenico”. E come non poteva, d’altra parte Buzzanca è un attore che proviene dalla gloriosa Accademia d’Arte Drammatica, un tempio dove si sono diplomati Manfredi, Buazzelli, Monica Vitti, Albertazzi, Placido, tanto per citarne solo qualcuno, dove ha studiato Vittorio Gassman, che non ha fatto in tempo a diplomarsi perché già semplicemente lavorava come un matto. E dove i compagni di corso di Buzzanca in Accademia si chiamavano Bruno Cirino, Ugo Pagliai, Mariano Rigillo. Semplicemente viene da chiedersi: che tempi la cultura italiana ha cavalcato. E che nomi, che idee. Francamente meravigliosi. Anzi irripetibili.
Giovanni Berardi