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L’americano è fesso, il giapponese anche di più, per non parlare dello svizzero, che oltre ad esser fesso non sa neppure cosa sia, la bellezza. Vengono, guardano, cercano di annodare un nome a un’immagine col naso spiaccicato su una guida, ma non hanno neppure la più pallida idea di quanto sangue… Pensano sia un museo, non riescono neppure a capacitarsi che la bellezza, qui, è quel che resta di una violenza senza pari. Non c’è un palazzo, né una chiesa – né affresco sacro, né profano – né fontana, né lucernaio, che non abbia avuto per committente un delinquente. E più era delinquente, e meno aveva scrupoli, e più era feroce, più aveva d’appresso artisti e storici a imbellettargli il grugno: «Prego, duca, si metta di profilo, così evitiamo di ritrarre la cicatrice»; «Santità, copra l’orecchio col camauro sennò si vede la papula luetica». Sembra un museo, ma a saper leggere le didascalie, tra le righe, è un catalogo di nefandezze, nequizie, vizi. Roba superlativa, in ogni caso, sicché con l’avvizzirsi della rigogliosa crudeltà del Medioevo, del Rinascimento e del Barocco, coll’avvento dei parassiti che hanno preso il posto dei delinquenti, la bellezza non ha prodotto altro che rifacimenti, copie in quarto o in ottavo, e lo stucco ha sostituito il marmo, il nemico non veniva più sventrato, ma strozzato, e la pennellata ha preso maniera. Per dirla al modo dei villani, la bellezza è diventata estetica, ha perso l’allusione all’atroce che doveva diluire fino a estinguerlo nel mirabile, e s’è data in «wonderful». Per le vie lungo le quali s’accatastavano cadaveri passeggia oggi, in pantaloni bianchi e giacca gialla, il custode di questo lascito in sfacelo, e dietro si trascina una lunga coda di turisti.