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La cosa che più mi piace di PJ Harvey è che a ogni disco sembra diversa, suona diversa, canta diversa. È diversa. E per chi come me odia gli artisti che clonano se stessi a ogni uscita in una versione ogni volta più vecchia e trista non ci può essere cosa migliore.PJ parte quindi verso direzioni differenti da quelle con cui ci aveva lasciati con l’ultimo “White Chalk”, disco sinistro e oscuro che io personalmente adoro: il perfetto ascolto per la notte. Il nuovo “Let England Shake” non è un disco più luminoso, però ha un atmosfera del tutto altra. È fortemente bellico, getta in mezzo a un campo di guerra, invita a una scossa, a un “Dai, cazzo!”, non solo i suoi conterranei inglesi ma tutto quel mondo in bambola paralizzato tra crisi economica e politica devastata. Una chiamata alle armi dolce e sinistra allo stesso tempo.
"Let England Shake" è un album che si ama (o almeno, io ha amato) fin da subito per la sua obliquità e forza ma che per un giudizio più completo richiede di parecchi ascolti, tanto non ci si annoia di certo visto che ogni volta si scoprono nuovi dettagli curiosi.Ci sono delle marcette pop inquiete, delle filastrocche perfette per tempi malati come “The Glorious Land” con tanto di trombetta militare e una “The words that maketh murder” che riecheggia sinistramente “Surfin’ Bird” dei Trashmen, o una “Written in the Forehead” che suona come la sua versione malata di certo pop 60s radiofonico di oggi tipo Eliza Doolittle. E ci sono poi momenti di quiete almeno apparente (l’incantata “All and everyone”, “Hanging in the Wire”), che rendono l’album ancora più vario e vivo.Al suo ottavo disco in proprio, PJ si conferma una DJ molto varia nelle sue scelte e un ascolto fondamentale per i nostri tempi. E soprattutto riesce ancora a sorprendere con un album che non solo parla di guerra, ma è anche una bomba.(voto 8+)
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