Fonte: Valori - Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità
CATEGORIE: Alimentazione , Salute
Latte e formaggio
In Italia i prezzi alla stalla sono i più alti d’Europa. Nel percorso verso il banco frigo, il prezzo quadruplica. Ma i ricavi degli allevatori non coprono i costi: ogni giorno chiudono tre fattorie. Intanto la concorrenza dei prodotti esteri si fa sempre più forte. Unica nota lieta: il boom dell’export e dei prodotti d’eccellenza.
Ci sono un tedesco, un austriaco e un italiano in un supermercato. Comprano un litro di latte fresco intero e vanno alla cassa a pagare. Il cittadino tedesco paga 85 centesimi, l’austriaco 95, l’italiano un euro e 55 centesimi. Quello che sembra l’inizio di una barzelletta è ciò che avviene ogni giorno nella realtà europea. La prova l’abbiamo fatta in tre supermercati di Monaco in Baviera, di Lienz nell’Ost Tirol e a Roma. L’aspetto assurdo della vicenda è che, se le tasche dei consumatori italiani piangono, quelle dei nostri allevatori sicuramente non ridono, perché con la vendita del latte non recuperano nemmeno i soldi spesi per produrlo.
Si lavora per la gloria. O quasi
Sono molte le sorprese lungo la filiera lattiero-casearia italiana. La prima si incontra scoprendo che in vent’anni la produzione di latte è rimasta pressoché stabile attorno a 108 milioni di litri (comunque meno dei 180 milioni consumati in Italia).
Eppure, nello stesso periodo, il numero di aziende è crollato dell’80%: erano 180 mila negli anni ’80, 123 mila nel 1996 e sono appena 40 mila oggi. Non è Baviesolo questione di razionalizzazione degli allevamenti. È piuttosto la conseguenza di un sistema che ha degradato le mucche a macchine da latte da sfruttare fino allo sfinimento (dal 1982 a oggi sono passate da 3,6 a 1,8 milioni) e che impedisce a molti piccoli produttori di stare sul mercato. I numeri in tal senso sono desolanti: da anni ormai i costi di produzione di un litro di latte superano i ricavi.
«Non c’è alcun dubbio – spiega Daniele Rama, direttore dell’Osservatorio del mercato lattiero-caseario dell’università Cattolica di Milano – che gli allevatori italiani, con ciò che ricevono dall’industria per il latte prodotto, coprono al massimo i costi diretti. Per rimanere in attivo non andrebbero considerate voci come il costo del lavoro dell’allevatore o la remunerazione del capitale».
La situazione della Lombardia fa ben capire questo scenario: nel 2009 il latte era venduto a quasi 35 euro al quintale.
Cifra sufficiente a ripagare solo i costi diretti (24,60 euro), il costo della terra e del lavoro dipendente (5,79 euro). Per coprire i costi totali (42,75 euro, che comprendono anche i fattori di produzione), ai ricavi della vendita del latte bisognava aggiungere quelli della carne e i premi elargiti dalla Ue. Se si concentra l’attenzione invece sul prezzo pagato per il latte, che viene poi utilizzato nella produzione di Grana Padano e Parmigiano Reggiano, la remunerazione è un po’ più alta. «Ma – avverte Mariella Ronga, ricercatrice del settore latte di Ismea – anche i costi per rispettare le prescrizioni dei disciplinari sono più alti. Alla fine quindi il differenziale costi/ricavi non cambia poi molto».
Eppure – seconda sorpresa – le somme pagate dalle industrie del settore non sono basse, se paragonate ai prezzi del latte alla stalla negli altri Stati Ue. Anzi: in Italia abbiamo (da sempre) i prezzi più alti d’Europa (vedi ). A fronte dei 31,1 euro pagati in Italia, cento chili di latte valgono 30 euro in Austria, 29 in Germania, 27 nel Regno Unito e 24,8 in Ungheria.
Somme più basse di quelle italiane, in valori assoluti. Ma in grado di assicurare agli allevatori degli altri Paesi guadagni maggiori. «La spiegazione principale – rivela Ronga – è da ricercare nei costi per l’alimentazione degli animali. Mangimi e foraggi incidono per la metà dei costi diretti sostenuti dagli allevatori. In Italia si fa ampio ricorso ad allevamenti intensivi con alimenti artificiali. Altrove, è assai più diffuso il pascolo. Così ci esponiamo enormemente alle oscillazioni di prezzo che i mangimi hanno sul mercato mondiale».
Se il litro di latte nei nostri supermercati costa molto di più che nel resto d’Europa non è però solo colpa dei prezzi alla stalla. Terza sorpresa: «Nei negozi tedeschi o austriaci – spiega Daniele Rama – il prezzo è doppio rispetto a quanto pagato all’origine. Da noi quadruplica. Questo perché c’è ancora lavoro da fare per rendere più efficiente la filiera di trasformazione e ci sono ampi margini di
competitività da recuperare nella fase industriale».
Latte fresco: italiani ultimi nella Ue
Ma, se i prezzi nei nostri supermercati scottano, a preoccuparsi non dovrebbero essere solo i clienti. È la sopravvivenza stessa della filiera lattiero-casearia italiana ad essere messa in discussione. Innanzitutto perché i consumatori si orientano verso prodotti meno costosi, che spesso vengono dall’estero.
Un esempio? Quarta sorpresa: su 100 litri consumati dagli Italiani, solo 40 sono di latte fresco. Il restante 60% è UHT, che costa circa la metà. «Dobbiamo fare di tutto - ammonisce Giorgio Apostoli, responsabile del settore zootecnico di Coldiretti - per evitare aumenti ingiustificati dei prezzi. Dei 108 milioni di litri di latte italiano, 11 sono consumati freschi, 49 vengono usati per produrre Grana, Parmigiano e altri formaggi Dop (denominazione di origine protetta, ndr). Gli altri 40 diventano formaggi freschi, mozzarelle e yogurt. E questa grande fetta entra in diretta concorrenza con il latte estero. Le aziende italiane comprano altrove la materia prima, perché la pagano molto meno».
«Il quadro generale è deprimente - commenta sconsolato Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la biodiversità - le stalle continuano a chiudere al ritmo di tre al giorno. Il consumo italiano di latte fresco è ai minimi storici ed è il più basso in Europa. Manca una cultura del latte che è spesso percepito come tutto uguale. Serve invece una inversione di tendenza per evitare la crisi irreversibile della filiera. Dobbiamo recuperare il legame con i prodotti dei nostri territori, dobbiamo imparare a valorizzarli. Se si perde quel legame, non importa più dove un formaggio è realizzato. I nostri territori ne risentiranno e l’industria casearia sposterà il più possibile le produzioni dove costano di meno».
Cina: successo tricolore
Che la tutela delle eccellenze italiane sia la via giusta, lo dimostrano gli invidiabili risultati che i prodotti di punta della nostra filiera casearia riscuotono in giro per il mondo, dove il fatturato ha raggiunto la cifra record di 1,6 miliardi di euro. Un’analisi di Coldiretti su dati Istat ha rivelato che nei primi dieci mesi dello scorso anno l’export di formaggi italiani è cresciuto del 13% (il 70% del valore
si è realizzato all’interno della Ue, l’11% sul mercato Usa).
Ma è nei Paesi emergenti che il boom è impressionante. Quinta e ultima sorpresa: in Cina, le esportazioni di Grana e Parmigiano sono cresciute del 318%. Almeno in questo caso, però, la sorpresa è tutt’altro che negativa.