In una vecchia intervista, Paul Auster parlava di come i suoi primi passi nella scrittura fossero concentrati in piccole poesie, compatte come pugni e ad alta densità lirica. Solo col tempo si aprirono verso una dimensione più distesa e narrativa. E la forma romanzo fu uno sbocco, non uno stacco.
Qualcosa di simile deve essere accaduto a Chico Buarque. Molte delle sue canzoni, in effetti, appartengono a quel genere di racconto in versi e musica su cui un giorno, forse, quando le nostre forme narrative saranno oggetto di indagine archeologica, si scriverà e discetterà più a lungo che sui contemporanei premi Nobel. Nel canzoniere di Chico si spazia dal delizioso bozzettismo di A Banda (reazioni di un’umanità varia al passaggio di una banda musicale in paese) fino a Construção, drammatica descrizione di una morte “bianca”: un muratore cade dall’impalcatura e ha il pessimo gusto di andare a scombussolare il traffico col suo cadavere.
Dal 1991, anno di Estorvo (“Disturbo”, in Italia edito da Mondadori), Chico Buarque ha scritto quattro romanzi. Romanzi brevi che si leggono come canzoni lunghe, perché delle canzoni hanno la stessa cura per la trama lessicale ancor prima che narrativa. Per la sua più recente fatica, Leite derramado (“Latte versato”, Feltrinelli, trad. di R. Francavilla), i critici brasiliani hanno evocato il talento di Machado de Assis, romanziere nazionale per eccellenza, maestro nell’impiego dell’io narrante, della formula memoriale e del ricordo magicamente giunto “dall’oltretomba”. Con Eulálio Montenegro D’Assumpção siamo ancora nell’ “al di qua”, ma vicinissimi alla tomba, visto che il vecchio ha compiuto cent’anni e giace in un letto d’ospedale dove altro non gli resta che il ricordo. Ricordi che un cervello ormai capriccioso lesina e rimescola con qualche licenza poetica. Eppure, come in un quadro cubista, tutto alla fine si ricompone e il vecchio Assumpção (rigorosamente con la “m”, si raccomanda perfino in punto di morte: ieri come oggi la storia del mondo lusofono è un succedersi di battaglie anche ortografiche), fra ricordi diretti e altri tramandati, mette assieme 200 anni di storia familiare e nazionale, dallo sbarco del primo antenato portoghese, al seguito della famiglia reale in fuga da Napoleone, alle vicissitudini di figli, nipoti e pronipoti che si intrecciano con quelle di un paese prima monarchico poi precocissimamente repubblicano, schiavista e meticcio, democratico e dittatoriale, aristocratico e sottoproletario, melodico e violento, ballabile eppure immobile. Il Brasile dei contrasti che, sia pur distrattamente, conosciamo o immaginiamo un po’ tutti, frullato da una mente che sa dare tutte le accelerazioni, frenate e sbandate giuste alla narrazione.
Con un “pensiero dominante” (per dirla alla Leopardi): Matilde, donna amata e perduta, desiderata ossessivamente (a un certo punto manderà a chiamare un prete, gridando di essere in peccato dal giorno in cui l’ha conosciuta) e misteriosamente scomparsa. Una donna dalla pelle scura e origini oscure, in una nazione che vive il proprio meticciato come un felice e controverso paradosso, motivo ora d’orgoglio ora di colpa, e dove gli schiavisti di un tempo, con la frusta sotto il paltò di tweed, diventano abolizionisti e fervidi sostenitori del ritorno dei neri in Africa, proprio per non vederseli vagolare per strada, una volta rimasti liberi e senza lavoro. Insomma i fautori nostrani del “rispediamoli a casa” troverebbero precedenti illustri in questa famiglia di Buendía brasiliani, per poi scoprire che 200 anni di moltitudine bastano a fare della razza pura un mito che solo una memoria difettosa può ancora coltivare.
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