Ogni introduzione riguardante un nuovo film di Xavier Dolan rischierà di essere ripetitiva alla nausea fino a che il ragazzetto canadese non avrà messo un po’ più di barba sulle guance, solo ad allora potremo evitare di asserire cose anche un po’ farneticanti del tipo “questo ha un talento fuori dal comune”, “questo è un bambino prodigio”, “questo a quarant’anni cosa combinerà se già adesso si propone con opere di tal fatta?”. Però Dolan è nato nel 1989 e il 20 marzo del 2012 ha compiuto ventitre anni, e pochi mesi dopo ha presentato a Cannes, per la seconda volta consecutiva e quindi, perdonate la pedanteria, all’età di ventidue anni aveva già calcato il medesimo palcosencio, la sua ultima pellicola: Laurence Anyways (2012). Ora, di giovani filmmaker a lui coetanei e di lui più bravi (qualunque cosa voglia dire) sarà pieno il mondo [1], ma Dolan è uno che ce l’ha fatta, che con neanche un quarto di secolo sulle spalle può già definirsi regista, e il solo fatto che oggi esiste un Xavier Dolan in un mondo di vecchie cariatidi, ritengo che debba far piacere a qualunque appassionato di cinema, anche perché aldilà di queste dissertazioni anagrafiche parliamo di un autore (sì) che, semplicemente, è bravo, e di un cineasta (di nuovo sì) la cui vivacità di sguardo è al momento inarrivata da molti suoi colleghi che potrebbero tranquillamente fargli da genitori, e ancora: di un giovane con all’attivo già tre film tutti dotati di coerenza, consequenzialità e metodo tanto da poter tirare in ballo parole come stile e poetica senza che nessuno, penso, possa dissentire.
Se I Killed My Mother (2009) rappresentava un debutto fortemente autobiografico in cui Dolan emetteva con tenero furore artistico il proprio rapporto odi et amo con la madre servito insieme ad affluenti sentimentali e personali riguardanti la sfera sessuale, con Heartbeats (2010) si abbandona (ma mai troppo) l’esigenza di scrivere di sé per puntare ad una riscrittura del più classico dei cliché-melò: il triangolo amoroso, l’operazione è portata efficacemente a compimento perché tali cliché vengono sapientemente mimetizzati in un impianto generale che definire brioso è un mero eufemismo. Ebbene, alla luce dei due film precedenti Laurence Anyways si profila come una conferma del cinema dolaniano, un contenitore nel quale si possono felicemente ritrovare i tic che ci hanno fatto apprezzare i lavori passati; anche qui il protagonista Laurence (per la prima volta non impersonato da Dolan stesso ma i segnali che Poupaud non sia altro che il suo alter ego sono palesi) ha una relazione complicata con la mamma, inoltre a prescindere dall’aspetto centrale del film (la transizione di genere: da uomo a donna), ciò che alla fin fine emerge dallo schermo è la love story che abbraccia un arco temporale di dieci anni. Ma nuovamente possiamo affermare che non c’è spiaggiamento, Dolan è capace di lavorare la pietra del già visto e partorire un cinema che ha una qualità da sempre ricercata: è vivo; poi ci mette ben del suo confermandosi un raffinato esteta che cura molto i dettagli, prendiamo l’atmosfera vintage: in ogni scena gli attori indossano abiti d’epoca differenti e con il procedere degli anni i costumi vengono di conseguenza aggiornati creando una bolla artistico-spaziale da applausi rinforzata dai brani musicali che seguono la loro cronologia storica.
Ma Laurence Anyways è inevitabilmente un film che scavalca la sintesi professionale di Dolan, lo è perché un minutaggio imponente come questo non può riguardare solamente la riproposizione di quanto già proposto prima, è un’opera che sa e che vuole essere ambiziosa, che sacrifica qualche raccordo logico (il bisogno impellente che Laurence ha di diventare donna non ha basi illustrate: un bel giorno lui dice a Fred che vuole diventare una lei, stop) in favore di un fermento audio-visivo che praticamente non conosce sosta. Chi si attendeva un’introspezione psicologica sull’atto di cambiare sesso (cosa che tra l’altro non avverrà completamente) dovrà soccombere sotto le carezze inferte da Dolan a cui i tormenti del personaggio-Laurence sembrano interessare relativamente, Xavier è uno che crede ancora nella permeabilità del cinema intesa come percorso biunivoco lui e noi + ritorno e ciò che ha da esprimere, da dirci, lo ripone nei suoi personaggi dando del tu allo spettatore (sto cercando una persona che…). È un discorso molto ampio nonché soggettivo, per cui parlando a titolo personale mi sento di affermare che nella filmografia dolaniana questa “permeabilità” è data da un facile accesso del concept di fondo il quale ha il pregio di, letteralmente, creare un’empatia e un forte senso di condivisione esperienziale relativo alle schermaglie galanti narrate; ergo: il cinema di Dolan punta ad essere sensibile e altamente riconoscibile anche solo da un fermo immagine, e a cascata si dipanano altri obiettivi (tutti centrati) che mettono in mostra un coraggio da leone come quello di raccontare l’abusato insertandolo di Novità (vestiti che piovono dal cielo?), di saper dare un nuovo senso al termine freschezza pur inscenando il sentimento-substrato per eccellenza, di chiudere quasi tre ore di proiezione con un flashback (in)significante che sprigiona un tale candore, una tale innocenza in quel normalissimo campo-controcampo, da aprire il cuore e gettarci dentro tutta la nostalgia di un primo incontro, effimero contatto dal quale però si possono generare alfabeti, mondi e arcobaleni che resteranno condivisi a lungo.
εïз______[1] Affermazione tutta da verificare.