Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:
Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo alla maggese
Giovanni Pascoli (Myricae, 1891)
La maggese era la parte di terreno lasciata incolta per qualche tempo ma opportunamente lavorata e concimata in modo che riacquistasse fertilità, un riposo lavorato della terra (i campi non destinati a coltivazione erano arati da tre a otto volte tra fine inverno e novembre) in vista di una rigenerazione dell’humus. Attraverso l’azione dell’aria, delle piogge e dei batteri il suolo si ri-generava, cioè era di nuovo pronto alla sua azione generosa per l’uomo. Così, certe pause imposte dal singhiozzo tra un lavoro e un altro oggi mi piacerebbe poterle chiamare “maggesi”; vorrebbe dire che il peso dell’inattività non è ancora riuscito a inaridire la mia humanitas.(Marco Bisanti)