Anna Lombroso per il Simplicissimus
Voleva fare politica, dice. Ma è riuscito nel suo intento, l’ha fatta e la sta facendo, certo, secondo le regole e le modalità contemporanee. Gli piace fare il giornalista dice, e l’ha fatto e lo fa a schizzi di fango, investigazione nel torbido e trascrizioni.
D’altra parte anche il parterre degli intervistatori del “basilisco”, di quel guappetto sudaticcio e confuso, protervo e sfuggente, sfrontato e codardo testimoniava del modo “moderno” di fare informazione: promesse di rivelazioni rinviate al domani come i derivati, quando a farlo di penseranno i processi, quesiti posti per fare bella figura, ficcanti quel tanto che serve per sembrare tosti e non per avere risposte, che, come era prevedibile, non ci sono state, una presenza ostentata per mostrarsi e non per “mostrare”.
E d’altra parte si è trattato di una delle poco sorprendenti rappresentazioni del teatrino della mediatico, che sbatte in scena la mediocrità sotto sembianze di puttanelle e lenoni, di miserabili corrotti e approssimativi corruttori, a recitare il loro pezzetto scontato di narrazione della realtà, messo in movimento dall’avidità, dall’ansia di affrancamento dalla pochezza, dalla smania di uscire da un anonimato paesano, agiti e posseduto dall’esigenza di apparire anche per pochi minuti, anche sotto la luce e col profilo peggiore.
Meglio sarebbe stato, meno avvilente per noi oltre che per i giornalisti vanitosi e esibizionisti convocati a fare i coach di improbabili ammissioni e di poco plausibili disvelamenti, dargli lo spazio per un monologo delirante ma a alto contenuto di teatralità, che ci avrebbe mostrato come davanti alla gabbia di uno zoo, la qualità e la misura del precipizio patologico nel quale siamo sprofondati insieme a un ceto politico che sta aggrappato al suo leader con la disperazione di naufraghi alla deriva. O che ne sta a guardare la fine temendo di succedergli per codarda dimissione dalle responsabilità e dall’autodeterminazione.
Ma i modi del riconoscersi affini, dell’affiliazione fino alla complicità disinvolta sono tanti. Lavitola ostinatamente dava del tu ai “colleghi”, all’anfitrione che in fondo fino a non molto tempo fa condivideva lo stesso padrone. Si dava un “tu” un po’ irridente e ammiccante: d’altra parte è la pena dovuta a chi a tutti i costi vuole entrare nel “segreto” del potere, aspira a conoscerne la lingua e le maniere, tanto da esserne lusingato e incantato e diventarne condizionato se non prigioniero. E finisce per “collaborazionismo” volontario o involontario per mostrarci quello che il potere preferisce sia rivelato, lesione del buoncostume più che offesa ai diritti, slealtà alle mogli più che sfregio della costituzione, ferita alla moralità più che vulnus alla legalità.
È vero d’altra parte, sono offesi i diritti ma dovrebbe insorgere anche il moralismo. Non fosse altro che per l’offesa al concetto di famiglia. Quella della corona sacra e unita che dovrebbe temere la concorrenza sleale di mafiosetti rubagalline. Quella cui è delegato Giovanardi, per uso improprio dello slogan nazionale : tengo famiglia, dice Lavitola, piange Tarantino, lamenta il premier riferendosi ai suoi protetti e alle multe da pagare. Lo pensano anche i giornalisti, sollevati che siano le undici e si può dire che il premier è ossessionato dalla “fica” senza offendere le orecchie dei figli.
Ha famiglia Scilipoti, Romano probabilmente ne ha due con quella del padrino. Hanno famiglia i radicali. Ce l’ha sicuramente il dimissionario dal Pd che vuole tutelare quella tradizionale. Ce l’hanno i deputati in attesa di pensione. Le veline delicatamente invitate a prostituirsi da papà e mamme. Accidenti eccome se ce l’ha Ruby e che famiglia prestigiosa.
Ma ce l’abbiamo tutti noi e per tutelarla davanti a tanto scempio forse dovremmo cominciare a spegnere la Tv e a ragionare insieme, conversare e ritrovarci in piazza e per strada per riprenderci questo posto bello e offeso.