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Lavorare meno, lavorare tutti

Creato il 16 luglio 2015 da Sviluppofelice @sviluppofelice

Il documento 16-7-2015 di Davide Lombardi

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E’ di ieri la proposta lanciata dal professor John Ashton, Presidente del Comitato di Salute pubblica britannico, di introdurre la settimana corta lavorativa: quattro giorni di lavoro invece degli usuali cinque e un bel weekend lungo di tre giorni. Per tutti. Secondo Ashton, una simile rivoluzione potrebbe produrre almeno tre risultati significativi: combattere gli alti livelli rilevati di stress da lavoro, permettere di passare più tempo in famiglia e a coltivare i propri interessi personali, ridurre il tasso di disoccupazione.

Ashton parla di una “cattiva distribuzione del lavoro”: chi lavora troppo, chi troppo poco o niente. In entrambi i casi le conseguenze sono un aumento delle malattie fisiche e mentali. Conclusione: lavorare meno non solo riaprirebbe spazi in un mercato del lavoro bloccato quando non in contrazione (in Italia la disoccupazione è tornata a salire), ma sarebbe un gran bene per la salute di tutti.

Una proposta rivoluzionaria che riporterebbe indietro l’orologio della storia a prima degli anni ’80. Periodo in cui si concluse, secondo il sociologo Luciano Gallino,  il trentennio che dal dopoguerra aveva visto migliorare in occidente le condizioni di vita di una quantità di persone mai conosciuta prima nella storia dando vita alla famosa “classe media”.

Invece, scrive Gallino  in La lotta di classe dopo la lotta di classe, “Verso il 1980 ha avuto inizio in molti paesi – Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Italia, Germania – quella che alcuni hanno poi definito una contro-rivoluzione e altri, facendo riferimento ad un’opera del 2004 dello studioso francese Serge Halimi, un grande balzo all’indietro. Le classi dominanti si sono mobilitate e hanno cominciato loro a condurre una lotta di classe dall’alto per recuperare il terreno perduto. Simile recupero si è concretato in molteplici iniziative specifiche e convergenti. Si è puntato anzitutto a contenere i salari reali, ovvero i redditi da lavoro dipendente; a reintrodurre condizioni di lavoro più rigide nelle fabbriche e negli uffici; a far salire nuovamente la quota dei profitti sul Pil che era stata erosa dagli aumenti salariali, dagli investimenti, dalle imposte del periodo tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni Ottanta“.

Anche senza la crisi del 2008 che ha prodotto la recessione attuale, l’Italia vive un periodo di stagnazione economica da almeno quindici anni: non c’è crescita. Non crescono i redditi, diminuisce il loro potere d’acquisto, aumenta la disoccupazione, si precarizza il lavoro sempre di più senza introdurre alcuna reale flessibilità del mercato se non in uscita. Di fatto, si è creato un nuovo proletariato con sempre meno prospettive, rispetto al passato, di modificare la propria condizione sociale verso l’alto.  La rivoluzione digitale, che tante aspettative e promesse aveva acceso tra la fine degli anni ’90 e il nuovo millennio, non sfugge affatto a questa dinamica.

La stagnazione, tradotta in termini semplici, vuol dire che la torta è sempre quella. Solo che a suddividersi le fette sono sempre meno persone. Tralasciando super-ricchi e ricchi – oligarchie economiche, finanziare e politiche che esistono da sempre in tutti i tempi e in tutte le società che solo una rivoluzione può intaccare (la “democrazia” non le ha mai toccate minimamente) – oggi, a “resistere” a quello che Gallino definisce il “grande balzo all’indietro” e alla mancanza di crescita sono quei membri della classe media i cui diritti sono stati acquisiti prima (parlando del caso Italia) di quando, nel 1997, il Pacchetto Treu – pensato in teoria per creare strumenti e incentivi all’occupazione –  gettò le fondamenta per la progressiva erosione di qualsiasi garanzia nei rapporti di lavoro.

Quando Ashton parla di introduzione della settimana corta, per motivi di salute (dal suo punto di vista) ma considerando anche la ricaduta occupazionale, è a quella categoria che parla: ai “garantiti” che, impauriti dalla crisi, cercano a tutti i costi di mantenere il loro pacchetto di diritti acquisiti (anche quando questi si sono ormai trasformati in privilegi). A tutti i Marchionne di questo mondo i consigli di Ashton sulla salute e sull’occupazione non interessano, almeno non direttamente.

Per fare un esempio concreto, e parlando di una categoria che per ovvi motivi conosco meglio, oggi i giornalisti si dividono in super tutelati (anche quando risentono direttamente della grave crisi dell’informazione, in genere fruiscono di una serie di ammortizzatori sociali sconosciuti ai colleghi non contrattualizzati) e precari e free-lance in situazioni salariali e lavorative da quello che un tempo si chiamava “terzo mondo”. A tal proposito, scriveva qualche giorno fa Davide De Luca su Il Post: “Il vero problema è che, ad occhio, quattro quinti delle risorse finiscono ai giornalisti assunti e tutelati, il resto se lo dividono tutti gli altri. Si chiama “mercato del lavoro duale” ed è caratterizzato dalla divisione tra gli “insider” iper-protetti e gli “outsider” senza garanzie: è una cosa che gli economisti conoscono molto bene (e che in Italia è molto diffusa)”. Ovviamente la condizione è estendibile a molte altre categorie, non solo ai giornalisti.

Per arrivare alla conclusione, è praticabile la proposta di Ashton? Si tratterebbe di fatto di una sorta di mega-contratto di solidarietà a livello nazionale. In pratica: suddividere in maniera più equa la torta. Una sorta di decrescita individuale, a favore di una crescita collettiva condivisa.

No, a mio avviso. Non so in Gran Bretagna. Certamente non Italia. Per almeno un paio di motivi. Perché la crisi terrorizza e i più avveduti sanno bene che prima di tornare a condizioni di vera crescita (ammesso e non concesso che si possa tornare a raggiungere i livelli che hanno caratterizzato il dopoguerra) saranno necessari dieci o quindici anni. Un periodo lungo che induce ovviamente a comportamenti ritentivi rispetto a quanto posseduto (in termini di “diritti” o anche banalmente di conto in banca. In definitiva: del proprio livello di vita).

Secondo perché, come scrive sempre Gallino, “far parte di una classe sociale significa appartenere, volenti o nolenti, ad una comunità di destino, e subire tutte le conseguenze di tale appartenenza. Significa avere maggiori o minori possibilità di passare, nella piramide sociale, da una classe più bassa ad una classe più alta; avere maggiori o minori possibilità di fruire di una quantità di risorse, di beni materiali e immateriali, sufficienti a rendere la vita più gradevole e magari più lunga; disporre oppure no, in qualche modo, del potere di decidere il proprio destino, di poterlo scegliere”.

Ora, una simile visione comunitaria – in un paese come il nostro in cui “l’unità d’Italia” è sancita dalla legge, si ripercorre giusto nelle cartine geografiche, si riscopre magari solo quando vince la nazionale di calcio un mondiale (occasione sfumata) – è semplicemente impensabile. In Italia una comunità nazionale non esiste. A nessun livello. Riversare la propria rabbia e insoddisfazione sulla politica che oggi nella sua pochezza rappresenta fedelmente questa parcellizzazione è psicologicamente comprensibile, ma praticamente nullo negli effetti. Lavorare meno, lavorare tutti, ammesso che questa sia una via efficace e praticabile per uscire dalla crisi, non lo decide la politica, che al massimo potrebbe sancire una simile svolta, ma una comunità sociale. Quando esiste.

(da CONVERSO, magazine on-line, 2 luglio 2014)


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