Lunedì.
Da lunedì ho ricominciato a lavorare, da lunedì il pupo resta da sola al nido. Piange, anche io piango, ma mi chiudo dietro la porta della sua classe e mi incammino verso l'ufficio. Il freddo mi entra dentro la pelle, perché diavolo non ho messo un altra maglia sotto. Mi stringo nel parka, mi tiro su il cappuccio e vado. Il cappuccio del parka è così largo, mi cade sugli occhi e vedo solo i miei piedi che infilano passi nei passi, su quei marciapiedi che conosco a memoria. Potrei urtare un palo ma questo paese lo conosco come le mie tasche, mi basta sbirciare un attimo dalla pelliccia sintetica, per attraversare la strada senza che nessuno mi tiri sotto, anche se, negli ultimi gironi è il desiderio di molti.
Passo davanti al cantiere. Li, dove proseguono i lavori di costruzione della nostra casa, che nostra ancora non è. La guardo e vado avanti. Penso al pupo e penso alla scadenze di fine mese, che bussano a denari. Sono arrivata. 20 scalini mi separano dall'ufficio, ma quanta fatica mi costa salire quelle scale. Faccio un respiro profondo. Del resto ne sono consapevole, il giorno che ho accettato quel lavoro ho firmato la mia condanna. Il portone pesante di ferro resiste ad aprirsi, il calore degli uffici mi passa sotto il parka e mi fa drizzare la schiena. Buongiorno.
Comincia un altra settimana.
Ancora scale, ma nessuna Stairway to Heaven. Tiro giù il cappuccio, mi tengo alla balaustra e salgo. Dieci scalini forse quindici e li vedo, saranno venti, forse trenta persone. Aspettano me. Le attraverso dicendo buongiorno, ma nessuno si prende la briga di rispondere. Sono arrabbiate, sono deluse, sono stanche, sono incredule cercano in me un risposta che non posso dargli. La bestia nera di questi giorni si chiama TARES, ma è solo l'ultima in ordine cronologico. I loro pensieri sono anche i miei, ma non posso dirlo. Io non vedo, non sento e non parlo. Faccio e Accumulo.
Accumulo, le urla, gli sfoghi, le minacce, faccio da scudo alla dirigenza. Non la difendo e nemmeno la giustifico, ingoio a vuoto e annuisco ad ogni sorta di accusa. Quando posso, spiego, cerco di essere chiara ed elementare ma a volte è difficile capire un sistema che ti chiede di pagare anche l'aria da respirare.
Sono le 12:00 ho finito, rimando a domani quelli che non sono riuscita a ricevere oggi.
Riprendo in mano il parka e mi chiudo dietro la porta pensando "non sono fatta per questo lavoro, ogni giorno muoio un po' sotto il peso di responsabilità che non mi appartengono, ma che rappresento. potrei dimettermi, licenziarmi, ciao a tutti a non rivederci mai più!"
Poi però penso ai bambini, alla casa, alle scadenze, al fatto che sono solo altri sei mesi di contratto, poi chissà, forse mi tengono, forse mi rimandano a casa, forse. Ora stringi i denti e vai avanti.
Domani sarò di nuovo qui, a girare le chiavi nella toppa di quella porta con su scritto:
"Ufficio Ragioneria: Tasse e Tributi - dal lunedì al venerdì - 09:00/12:00"
Da lunedì ho ricominciato a lavorare, da lunedì il pupo resta da sola al nido. Piange, anche io piango, ma mi chiudo dietro la porta della sua classe e mi incammino verso l'ufficio. Il freddo mi entra dentro la pelle, perché diavolo non ho messo un altra maglia sotto. Mi stringo nel parka, mi tiro su il cappuccio e vado. Il cappuccio del parka è così largo, mi cade sugli occhi e vedo solo i miei piedi che infilano passi nei passi, su quei marciapiedi che conosco a memoria. Potrei urtare un palo ma questo paese lo conosco come le mie tasche, mi basta sbirciare un attimo dalla pelliccia sintetica, per attraversare la strada senza che nessuno mi tiri sotto, anche se, negli ultimi gironi è il desiderio di molti.
Passo davanti al cantiere. Li, dove proseguono i lavori di costruzione della nostra casa, che nostra ancora non è. La guardo e vado avanti. Penso al pupo e penso alla scadenze di fine mese, che bussano a denari. Sono arrivata. 20 scalini mi separano dall'ufficio, ma quanta fatica mi costa salire quelle scale. Faccio un respiro profondo. Del resto ne sono consapevole, il giorno che ho accettato quel lavoro ho firmato la mia condanna. Il portone pesante di ferro resiste ad aprirsi, il calore degli uffici mi passa sotto il parka e mi fa drizzare la schiena. Buongiorno.
Comincia un altra settimana.
Ancora scale, ma nessuna Stairway to Heaven. Tiro giù il cappuccio, mi tengo alla balaustra e salgo. Dieci scalini forse quindici e li vedo, saranno venti, forse trenta persone. Aspettano me. Le attraverso dicendo buongiorno, ma nessuno si prende la briga di rispondere. Sono arrabbiate, sono deluse, sono stanche, sono incredule cercano in me un risposta che non posso dargli. La bestia nera di questi giorni si chiama TARES, ma è solo l'ultima in ordine cronologico. I loro pensieri sono anche i miei, ma non posso dirlo. Io non vedo, non sento e non parlo. Faccio e Accumulo.
Accumulo, le urla, gli sfoghi, le minacce, faccio da scudo alla dirigenza. Non la difendo e nemmeno la giustifico, ingoio a vuoto e annuisco ad ogni sorta di accusa. Quando posso, spiego, cerco di essere chiara ed elementare ma a volte è difficile capire un sistema che ti chiede di pagare anche l'aria da respirare.
Sono le 12:00 ho finito, rimando a domani quelli che non sono riuscita a ricevere oggi.
Riprendo in mano il parka e mi chiudo dietro la porta pensando "non sono fatta per questo lavoro, ogni giorno muoio un po' sotto il peso di responsabilità che non mi appartengono, ma che rappresento. potrei dimettermi, licenziarmi, ciao a tutti a non rivederci mai più!"
Poi però penso ai bambini, alla casa, alle scadenze, al fatto che sono solo altri sei mesi di contratto, poi chissà, forse mi tengono, forse mi rimandano a casa, forse. Ora stringi i denti e vai avanti.
Domani sarò di nuovo qui, a girare le chiavi nella toppa di quella porta con su scritto:
"Ufficio Ragioneria: Tasse e Tributi - dal lunedì al venerdì - 09:00/12:00"