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Lavoro e Mercato

Creato il 12 settembre 2012 da Veritaedemocrazia
Credo, immagino, mi auguro che la stragrande maggioranza delle persone stia dalla parte dei lavoratori che lottano in difesa del proprio posto di lavoro, cioè del diritto ad avere un reddito sufficiente per vivere e a conservare quel ruolo e quel riconoscimento sociale che solo il lavoro assicura. Si condividono le ragioni legate al bisogno di chi lotta anche quando appare evidente che si tratta di vertenze sconfitte in partenza perché le imprese che si cerca di non far chiudere sono ormai 'fuori mercato' e non più in grado di produrre profitti considerati adeguati dagli investitori o che confliggono con la tutela dell'ambiente, della salute e dell'integrità fisica dei cittadini. E d'altra parte se in cima alle paure degli italiani vi sono proprio la crisi e la perdita del lavoro non dipende da una ben congegnata e coordinata campagna di disinformazione dei media ma proprio dalla realtà della situazione economica attuale del nostro Paese. Realtà di cui danno prova tutti gli indicatori economici: l'andamento del PIL, il tasso di disoccupazione che assume livelli intollerabili soprattutto al Sud, per le donne e per i giovani (il cui accesso al mondo del lavoro è stato reso ancora più difficile proprio dalla riforma delle pensioni della Fornero che ha bloccato l'uscita dalle aziende degli anziani), l'aumento della pressione fiscale ed il contemporaneo incremento in valore assoluto del debito pubblico, la riduzione del potere d'acquisto di lavoratori e pensionati con i salari rimasti al livello di decenni fa, gli sfratti per morosità ed i protesti e le insolvenze bancarie a livelli record, la contrazione dei consumi (compresi ovviamente quelli legati al turismo estivo), il saldo negativo tra le nuove imprese che nascono e le vecchie che falliscono (150 'tavoli' relativi ad aziende in crisi aperti presso il Ministero dello Sviluppo Economico 'Economia con 180 mila lavoratori coinvolti ed almeno 30 mila esuberi previsti), il ricorso alla cassa integrazione per un numero di ore sempre crescente, la nuova emigrazione dei giovani verso i Paesi stranieri. Per chi perde il lavoro (il “posto di lavoro” esecrato dalla Fornero), soprattutto se ha più di quaranta o cinquant'anni, non c'è speranza di poterlo ritrovare e non resta che salire sulle gru, sulle torri, scendere sotto terra nelle miniere per affermare i propri diritti o addirittura togliersi la vita in preda alla disperazione. La verità è che il lavoro non c'è, non c'è più, non c'è per tutti.
Bisogna considerare, tutti insieme, una serie di elementi: che la tecnologia, le macchine, i computer hanno drasticamente limitato il fabbisogno di lavoro umano; che la crisi e l'austerità riducono il potere di acquisto dei cittadini-lavoratori-consumatori (cosa che va ad aggiungersi al trasferimento di quote di reddito realizzatosi nell'ultimo trentennio dai salari alle rendite ed ai profitti); che si è raggiunto per l'Italia un livello tale nella disponibilità di prodotti di uso durevole (le automobili, gli elettrodomestici), a differenza di quanto accadeva nel periodo dell'impetuoso boom economico degli anni cinquanta e sessanta, che offre solo spazi marginali all'incremento della domanda; che le merci e i servizi italiani spesso non sono più concorrenziali con quelli prodotti in altri Paesi (per capacità di innovazione, efficienza del sistema (si paragoni la zavorra della corruzione, della criminalità organizzata e della burocrazia che contraddistinguono l'Italia con la realtà, ad esempio, della Germania), costo del lavoro, diritti sindacali, oneri per la sicurezza rapportando le regole in vigore nel nostro Paese con quelle in essere negli Stati dell'Est Europa e soprattutto di quelli del Sud-Est asiatico). Fino ad alcuni decenni fa si sarebbe garantita la continuità di produzioni in perdita ponendo a carico della collettività i relativi oneri ma ciò non è più consentito dalle normative dell'Unione Europea. Ed a questo va a sommarsi il fatto che in tempi di recessione, di austerità, di centralità data alla questione del debito pubblico non ci sono più margini per redistribuire il reddito a favore delle classi sociali più disagiate. Bisogna 'inventarsi' il lavoro si dice: ma questo può valere per una ristretta cerchia di persone più abili e più intraprendenti: non può riguardare la generalità di coloro che hanno bisogno di lavorare. E d'altro canto, è questa la tanto evocata crescita, un sistema fondato sull'incremento esponenziale dei consumi – sull'usa e getta, sul consumo del territorio e delle risorse naturali, sulle mode che impongono di dismettere gli oggetti ancora funzionanti e funzionali per acquisirne di nuovi, nuove automobili, nuovi abiti, nuovi gadget elettronici – si scontra drammaticamente con la limitatezza delle risorse che ci mette a disposizione il nostro Pianeta soprattutto se i livelli di consumo occidentali fossero raggiunti, così come sarebbe giusto, dalla totalità della popolazione mondiale. Oppure si pensa che la piena occupazione possa venire dai call center, dall'apertura h24 dei centri commerciali, dai punti di scommesse sportive? Ancora si dovrebbe essere consapevoli che se la pubblica amministrazione, se alcuni comparti di servizi ancora sostanzialmente al riparo dagli effetti della globalizzazione, fossero 'efficientati' dal punto di vista dell'impiego di lavoratori effettivamente rispondente ai bisogni produttivi, il dramma occupazionale assumerebbe dimensioni bibliche. In un sistema capitalistico l'economia non ha come stella polare la soddisfazione dei bisogni umani ma la produzione e conseguentemente il lavoro dipendono dalla possibilità di vendere e di guadagnare. E se con la bacchetta magica si potesse aumentare da un momento all'altro il potere d'acquisto dei cittadini, in particolare dei ceti più poveri, i maggiori consumi si rivolgerebbero inevitabilmente verso merci di qualunque genere prodotte in Cina, automobili tedesche o giapponesi, viaggi nei paesi tropicali, telefonini di fabbricazione coreana. Al mercato, al capitalismo va riconosciuto, così come fece Marx, che ha reso disponibili beni materiali in misura mai conosciuta in precedenza dall'umanità ma, a parte il fatto che a ciò non ha corrisposto una migliore qualità della vita per gli individui ed una maggiore giustizia sociale, reca in sé una serie di insanabili contraddizioni: alla pretesa efficienza nell'impiego delle risorse e delle scelte produttive determinate dalle leggi della domanda e dell'offerta, dalla capacità delle imprese di incontrare le preferenze, i bisogni, i gusti dei consumatori, a questo mondo della fantasia che è il sistema della concorrenza perfetta va contrapposta la realtà dei monopoli e degli oligopoli, dei bisogni e dei gusti indotti e coercitivamente imposti attraverso la pubblicità, l'informazione, la persuasività dei modelli dello star system, della subordinazione della politica (che cessa definitivamente di essere espressione delle scelte democratiche dei cittadini e del bene comune) al profitto ed agli interessi del grande capitale, della dissipazione delle risorse umane e materiali. Se l'economia è invece definita come l'impiego di risorse scarse per la soddisfazione dei bisogni, deve essere ripensata partendo proprio dalle necessità umane, dal come incontrare quelle di ciscuno ed assicurare il diritto/dovere di tutti di contribuire al benessere collettivo. E ciò richiede un progetto complessivo e coerente di società, di Stato, di Europa, di Mondo per ripensare il sistema produttivo assicurando giustizia, libertà, democrazia e come questi valori possano essere rispettati anche in un quadro di indispensabile pianificazione generale dell'economia. Il nocciolo, il punto centrale sta nel controllo pubblico e collettivo della produzione e della distribuzione della ricchezza. Invece di attendere la chimera della crescita, basata su produttività, competitività, flessibilità, precarietà – tutti termini che di fatto significano ridurre diritti e garanzie per i lavoratori - per creare occupazione e la ricchezza da redistribuire successivamente (ed ipoteticamente) per attenuare le disuguaglianze create dal mercato è possibile e necessario rovesciare il sistema: combinare risorse umane (chi perde il lavoro e chi lo cerca), tecnologie, saperi, ricerca, beni pubblici, patrimoni confiscati alla malavita ed ai grandi evasori, aziende dismesse o che chiudono perché non più remunerative, per produrre e rendere disponibili i beni necessari per l'esistenza e la dignità degli esseri umani. Cibo, acqua, casa, energia, trasporti, cultura, istruzione, comunicazioni, salute, sicurezza, qualità della vita, ambiente: anzitutto per coloro che sono impegnati direttamente nel ciclo produttivo, una sorta di reddito di cittadinanza, e – gratuitamente o a basso costo – per tutto il resto della collettività. Un sistema da articolarsi su tre pilastri: lo Stato (perché vi sono materie – ad esempio l'energia o i trasporti – che richiedono una programmazione ed una pianificazione centralizzata), la gestione partecipata e diffusa dal basso di beni comuni e imprese, l'iniziativa privata per ciò che attiene la cultura, la creatività, l'arte, lo spettacolo, il tempo libero, l'informazione. Un sistema dove gli incrementi di produttività, le innovazioni tecnologiche, le scoperte scientifiche possano andare a vantaggio di tutti, e non unicamente del profitto e per essere sciupate nella realizzazione di merci inutili, migliorando la qualità della vita, la disponibilità di beni, la riduzione dell'orario di lavoro.
Post Scriptum. La decrescita è termine in sé poco seduttivo, quasi malaugurante, tant'è che alcuni si sentono in obbligo di accompagnarlo, come fa Maurizio Pallante, all'aggettivo felice (sarebbe più semplice ed opportuno parlare di riconversione ecologica) ma identifica una visione razionale e giusta: produrre di meno e cioè ciò che è utile e necessario, per preservare l'ambiente e la scarsità di risorse che lo contraddistingue e la qualità della vita, non riducendo l'esistenza umana ad una corsa all'accumulazione senza limiti, Ma evidentemente trova la possibilità concreta di realizzarsi solo nel superamento del sistema capitalistico e della logica del profitto, nel controllo pubblico dell'economia, nella disponibilità di reddito e lavoro per tutti perché non ci sia mai nessuno costretto a difendere, quale unica possibilità per la propria sopravvivenza materiale, produzioni inquinanti o nocive o moralmente inaccettabili.

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