Mamma fammi rimorire , perché questa vita è brutta! Questa è la frase con la quale una bimba di sei anni piangucolando si è rivolta a sua madre. La richiesta è stata ripetuta per ben due volte in tempi diversi. La piccola è secondogenita di una coppia quarantenne, lui ex rappresentante di commercio ora disoccupato, lei insegnante in una scuola serale per il recupero di anni scolastici.
Il tenore di vita del nucleo familiare risulta decisamente basso: niente automobile, niente vacanze, niente che non sia l’indispensabile parallelamente ad una sorta di ritiro sociale. Da lungo tempo, circa sei mesi dopo che il capo famiglia ha perso il lavoro, l’atmosfera in casa è diventata tesa e pesante: i genitori si scontrano continuamente con autoaccuse reciproche per motivi di lavoro, di soldi, di incomprensioni ed a causa delle bambine. La primogenita, nove anni, manifesta carattere aggressivo e prepotente in casa e a scuola, ripete il terzo anno delle elementari in quanto bocciata nell’ultimo appena concluso; in casa schiavizza sua sorella piccola, usa mentire a chiunque e si rifiuta di studiare. Potremmo arricchire questo penoso quadretto familiare con delizia di particolari, ma lasciamo al lettore il dispiacere di farlo autonomamente.
Spostiamo invece l’ottica di osservazione del fenomeno dall’interno della cellula “famiglia” all’esterno di essa. Dalle informazioni disponibili evince il profilo di una famiglia disfunzionale, non in grado di produrre protezione e accudimento ne sostentamento e cure per i suoi stessi componenti; non è in grado di interagire positivamente all’interno del contesto sociale di appartenenza; non in grado di prevenire ne curare i disagi del singolo ed in particolare dei figli minori. La malattia che ha colpito questa famiglia, solo una delle tante in simili condizioni, è: la perdita.
Con la perdita del lavoro del padre è crollata la facciata sociale e la sicurezza del piccolo nucleo dando luogo ad un lento sgretolamento valoriale a cui ha fatto seguito la perdita del rispetto per se stessi e quello reciproco, la perdita della fiducia e della speranza nel futuro, la perdita della stima di se stessi e degli altri, si è perso contemporaneamente l’entusiasmo ed il senso di appartenenza, si è perso il valore personale e la voglia di vivere.
La frustrazione e l’impotenza di fronte al proprio diritto al lavoro negato, quale insostituibile conferma e riconoscimento della dignità personale, può generare dolore profondo nella persona con conseguenti sentimenti di resa e liberazione selvaggia di modalità aggressive. Evidentemente, però, dalla stessa malattia è colpita anche gran parte della società visto che di fronte al problema in esame il sistema è assente, distratto ed incapace ad intervenire proprio come lo sono i genitori della piccola depressa. La salute mentale è un diritto per tutti e per ognuno, ciò nonostante le autorità preposte sembrerebbero disattente e non cogliere il nesso di causalità fra mancanza di lavoro e sfaldamento dello stato di salute mentale nella persona.