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Lavoro e sindacato

Creato il 23 novembre 2013 da Oichebelcastello
IL LAVORO E IL SINDACATO

Non potevo non affrontare un tema così importante come quello del lavoro.
Mi appresto a farlo con una certa titubanza.
Si tratta di un argomento attuale (per la perdita di posti lavoro nella ns. zona negli ultimi anni) e anche perché nel cercare i responsabili, il sindacato è rientrato nella cerchia dei possibili colpevoli.
L’immagine di apertura è provocatoria, ma il post tenta di ricucire un rapporto lavoratori / cittadini / sindacato ormai diventato difficile.
Le forze sindacali prima di ogni altra sono preposte non solo a tutelare i lavoratori, ma si occupano della contrattazione delle condizioni normative e retributive a livello nazionale, territoriale, aziendale, del controllo e della verifica dell’applicazione delle normative contrattuali e di legge che regolano i rapporti di lavoro.
Vorrei aggiungere che non c’è scritto da nessuna parte che devono occuparsi della formazione dei lavoratori, ma è un argomento che dovrebbero affrontare meglio e al più presto.
A fronte di un aumento di tesserati negli ultimi 10 anni e di una diminuzione globale dei lavoratori, mi aspettavo bilanci dotati di maggiore trasparenza, sono cresciute molto le attività consulenziali a scapito di quelle di tutela dei lavoratori.
Il sindacato è un ente e deve dare esempio anche alle aziende.
Sarebbe interessante svolgere un’indagine per analizzare la percentuale dei sindacalisti attivi rapportata al numero dei lavoratori in Italia e negli altri paesi (non ne ho trovate in rete)
La solidarietà dovrebbe diventare la parola chiave nelle priorità sindacali per uscire dalla crisi e dovrebbero dare l’esempio i sindacalisti (come forse anche i politici)
Quali potrebbero essere le proposte ?
– prelevare cifre diverse dalle buste paga dei lavoratori ? Lo stanno già facendo, l’aliquota non è la stessa, ma è crescente al crescere del reddito. Non basta !
Al sindacato vanno comunque troppi soldi, più di quanto ne hanno bisogno, e per risalire alle somme che passano dai sindacati si riesce a capirci qualcosa dal bilancio INPS (vedi articolo n. 1). Le organizzazioni sindacali direttamente non pubblicano niente di chiaro.

Il sindacato è regolato dalla norma costituzionale, è una delle organizzazioni alla base della nostra vita sociale e lavorativa, non si può e non si deve delegittimare, ma si deve constatare che al rilevante numero dei contratti, alle varie forme di lavoro precario introdotte, l’aumentare della complessità del mercato , non ha fatto seguito una puntuale e precisa attività sindacale.

Qui di seguito alcuni articoli rilevati in rete che rappresentano analisi diverse sul denaro che ancora transita verso le organizzazioni sindacali.
L’intervista a Landini (articolo n. 2 ) è significativa di un sindacato che si interroga sul suo ruolo e sul suo futuro.
Infine un modello argentino (articolo n. 3 ) con un bellissimo esempio di quando persone che condividono il destino crudele della disoccupazione per fallimento di una azienda possano autonomamente organizzarsi e riprogrammare il proprio futuro. (cosa che purtroppo non siamo mai riusciti a realizzare nel nostro paese)

ARTICOLO N. 1
Le trattenute Inps destinate ai sindacati, un fiume di denaro a basso costo
01-10-2012 – Ettore Vita
Tutti i numeri delle trattenute Inps destinate ai sindacati, grazie a un sistema di deleghe poco chiaro per il lavoratore.
Inps, il totale delle trattenute a favore dei sindacati

L’importo che l’Inps trasferirà alle Organizzazioni sindacali alla fine dell’anno ammonta a 713 milioni di euro. 438 milioni per ritenute sulle prestazioni, 275 milioni per contributi associativi. E’ scritto nel bilancio preventivo per il 2012, disponibile nel sito internet dell’Inps.
Si dice che sia un servizio ad alto contenuto sociale, un diritto dei lavoratori e dei pensionati a chiedere il versamento della quota associativa alla propria Organizzazione sindacale. Un diritto a vita che ha resistito anche all’esito del referendum del ’95 che ne aveva decretata l’abolizione con ampio consenso.
Un diritto non solo permanente ma anche prioritario, si applica anche sulle pensioni integrate al trattamento minimo che la legge salvaguarda impedendo finanche il recupero dei crediti dell’Inps per prestazioni non dovute (art. 69, l. n. 153/69). Questa esigenza passa in secondo piano innanzi al tuo diritto di farti trattenere lo 0,50% anche sulle pensioni integrata al minimo. Oltre 31 euro nel 2012. E dire che, trattandosi di pensione integrata dallo Stato, la trattenuta viene, di fatto, posta a carico della collettività.
La trattenuta è effettuata sull’importo lordo della pensione, quindi il pensionato ci paga anche le tasse. Ma non spaventatevi, la trattenuta non è dello 0,50% su tutte le pensioni, è graduata in modo inversamente proporzionale al loro ammontare: 0,40% sugli importi eccedenti il minimo e non eccedenti il doppio del trattamento minimo; 0,35% sugli importi superiori a detti limiti.
Ovviamente la trattenuta sindacale non risparmia nemmeno le prestazioni a sostegno del reddito, non importa che il lavoratore sia ammalato o abbia perso il lavoro. La trattenuta su alcune prestazioni è a percentuale (CIG, mobilità, disoccupazione), su altre è costituita da un importo indicato dal sindacato sulla domanda (disoccupazione agricola). Si tratta d’importi rilevanti (più di 76 milioni di euro) che fanno accapponare la pelle, se si pensa alla condizione dei lavoratori.
Il Sindacato ha bisogno di sostegno economico per svolgere la sua funzione. Tuttavia dovrebbe affermarsi il principio del sostegno diretto, come avviene per i partiti o le altre associazioni in generale. Ovvero la delega alla trattenuta dovrebbe almeno essere rinnovata annualmente. Così la trattenuta sarebbe frutto di una libera manifestazione di consenso degli iscritti. Va rilevato, infatti, che la delega alla trattenuta, nella maggior parte dei casi, è sottoscritta presso l’Ente di patronato all’atto della presentazione di una domanda di prestazione. Quindi in un momento di particolare bisogno e senza adeguata informativa sulle conseguenze. Per motivi burocratici, poi, la disdetta non è semplice e per eliminare la trattenuta, passano minimo tre mesi.
L’Inps svolge con scrupolo il servizio di riscossione delle trattenute sindacali e a prezzi stracciati, 0,03 euro per ogni delega contestuale alla domanda di pensione e 0,02 euro per la sua gestione annuale. Una miseria. Ci vogliono 34 deleghe per un euro. L’Inps svolge anche un’altra funzione, trattiene, a favore degli Enti di patronato che sono una costola del sindacato, lo 0,222% sui contributi versati. Nel bilancio preventivo del 2012 la somma che sarà versata ai Patronati è quantificata in 316 milioni di euro. Un fiume imponente di danaro di cui poco si parla.

Articolo n. 2
Landini: “Il sindacato è morto se non cambia, grave crisi di rappresentanza”
Il leader della Fiom: i precari non ci riconoscono
di ROBERTO MANIA
ROMA – “O questo sindacato cambia o è destinato a morire”. Maurizio Landini è il segretario generale della Fiom, il più antico sindacato italiano, ancora il più prestigioso. Prima di lui sono stati segretari generali dei metalmeccanici della Cgil Luciano Lama, Vittorio Foa, Bruno Trentin. È un pezzo della storia sindacale italiana. Landini non parla il sindacalese, appartiene a una nuova generazione di dirigenti senza più tessere di partito che ha abbracciato l’idea del sindacatomovimento. In questa intervista ammette – forse è la prima volta per un sindacalista – che le grandi organizzazioni sindacali non sono più rappresentative tra i lavoratori, sia tra quelli tutelati, sia tra i precari, giovani ed anziani.
Landini, sta dicendo che lei guida un sindacato moribondo?
“Io dico che c’è una crisi di rappresentanza che riguarda tutto il sindacato, senza distinzioni. Penso che il sindacato vada ricostruito”.
Rifondato?
“Non mi piace questa parola. Ma il sindacato è in grande difficoltà. Se vuole avere un futuro deve cominciare a fare i conti con il fatto che si trova all’interno di una profonda crisi di rappresentanza, che interessa anche la politica come le associazioni delle imprese. Perché se è vero che sempre più cittadini non vanno a votare, è anche vero che la maggior parte dei lavoratori non è iscritto ad alcun un sindacato.
Ci sono milioni di precari, giovani ma non solo, che non vedono nelle organizzazioni sindacali un soggetto che li possa rappresentare”.
Se ne sta accorgendo un po’ in ritardo. Cosa ha fatto la Fiom per impedire questa tendenza?
“Intanto chi pensava (e noi non eravamo tra questi) che il caso Fiat fosse un episodio, ora è costretto a ricredersi con il blocco da otto anni dei rinnovi contrattuali nel pubblico impiego, con gli accordi separati nel commercio, con la disdetta del contratto nazionale da parte delle banche. Ormai una larga parte dei lavoratori è senza il contratto nazionale. Noi ci siamo opposti a questo. Abbiamo difeso i diritti dei lavoratori in fabbrica e prospettatoun’idea di società diversa. Lo considero un punto importante. E comunque: o si cambia oppure il modello Fiat porterà alla morte dei sindacato generale confederale e all’affermazione del sindacato aziendale. Bisogna avere il coraggio di voltare pagina”.
Come?
“C’è bisogno di più democrazia nel sindacato. I lavoratori devono poter votare sempre sui contratti e gli accordi che li riguardano. Dobbiamo rappresentare i precari non solo a parole. Non possiamo continuare a scaricare su di loro il peso di molti accordi che facciamo”.
In concreto cosa vuol dire?
“Che 280 contratti nazionali sono troppi. Che basterebbe un contratto e un sindacato dell’industria che preveda le stesse tutele e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni tra tutti i lavoratori. Dobbiamo puntare a ripristinare le pensioni di anzianità per il lavoro di fabbrica, per chi guida i treni, per gli infermieri… Non è un privilegio, ma un diritto”.
Cosa rimprovera al segretario generale della Cgil Susanna Camusso?
“La Cgil sta avviando il suo congresso. Spero che si possa svolgere una discussione aperta, che valorizzi tutti i punti di vista. Più in generale credo che la crisi del sindacato nasca dal fatto che in questi anni non sia stato capace di tutelare le condizioni di chi lavora, c’è stato un secco arretramento. E se le persone stanno peggio vuol dire che anche noi abbiamo sbagliato. E poi: c’è stata una caduta di autonomia rispetto ai governi e alla politica. Non si può cambiare a seconda del governo e della maggioranza”.
(08 novembre 2013)

Articolo n. 3
Modello argentino di lavoratori che occupano una fabbrica :
Alessandro Di Battista ci racconta oggi una storia a lieto fine, una bella storia di diritti e di lavoro.

Le aziende devono appartenere a chi lavora: un esempio dall’Argentina

“Luigi Zanon, un imprenditore italiano, aprì una fabbrica di ceramica a Neuquén, in Patagonia, nel 1979. Era un uomo noto in Argentina, la sua famiglia aveva messo su a Recoleta, a quattro passi dal cimitero dove riposa Evita, il parco dei divertimenti più grande del continente: l’Italpark. Zanon era un tipo sciovinista, nel logo della fabbrica spiccava il tricolore e sia gli ottovolanti che i forni dove cuocere la ceramica erano made in Italy. Nei primi anni la fabbrica ottenne enormi finanziamenti pubblici e Zanon, grande amico del regime, non faceva altro che ringraziare il dittatore Videla per aver reso l’Argentina un paradiso per investire. Se Zanon faceva la bella vita lo stesso non si poteva dire dei suoi operai ai quali toccava sgobbare in fabbrica 16 ore al giorno senza diritti nè sicurezza.
Esiste al mondo qualcosa che sia peggio di un lavoro alienante? Certamente: perderlo. Gli anni ’90 non iniziarono troppo bene né per Zanon e né per l’Argentina. Mentre Brehme trasformava un rigore piuttosto dubbio facendo impazzire di gioia la Germania appena riunificata e disperare Maradona e compagni, Roxana Celia Alaimo, una ragazzina di 15 anni, perdeva la vita su una giostra dell’Italpark che da anni non riceveva manutenzione. Il parco venne chiuso immediatamente ma la fabbrica di Neuquén, anch’essa teatro di morti assurde tra gli operai, non venne neppure ispezionata.
Nel 1994 mentre il Presidente Menem obbediva agli ordini di Washington inaugurando la stagione delle privatizzazioni, Jorge Sobisch, Governatore della Provincia di Neuquén, andava controtendenza finanziando la fabbrica Zanon con 5 milioni di dollari: quattrini pubblici che il Patron si mise in tasca bellamente al posto di reinvestirli in innovazione dando di fatto il via allo smantellamento dell’industria. Cominciò a licenziare, a vendere macchinari, a dismettere intere aree della fabbrica. «C’è crisi» ripeteva Zanon, «non posso fare diversamente».
Gli operai avevano paura ma non sapevano come muoversi, erano soli, non c’era un sindacato, non avevano mai scioperato, neppure si conoscevano tra loro. Lavorare a ritmi massacranti e a piccoli gruppi non gli aveva mai dato modo di riunirsi ma un giorno venne presa una decisione che avrebbe fatto la storia: giocare a pallone! Fu un campionato di calcio l’inizio della rivoluzione.
Ogni domenica gli operai iniziarono a darsi appuntamento su un campetto di periferia. Sudavano, litigavano per un fuorigioco, si insultavano, insomma diventavano amici e quando nel 2000 un altro ragazzo perse la vita in fabbrica gli operai della Zanon erano diventati un gruppo e seppero reagire. Daniel, così si chiamava il ragazzo, ebbe un attacco cardiaco appena entrato in fabbrica e venne portato in infermeria, gli fu dato l’ossigeno ma la bombola era vuota. La morte di Daniel mostrò con chiarezza quanto per il Patron valessero le vite dei suoi operai. Iniziarono gli scioperi, le assemblee, le rivendicazioni, gli operai della Zanon vinsero le elezioni del sindacato ceramista della provincia. Il Patron rispose con nuovi licenziamenti e smettendo di pagare gli stipendi fino a che, nel 2001, decise di chiudere definitivamente la fabbrica.
Quando gli operai trovarono i cancelli sbarrati restarono sbigottiti, da mesi senza stipendio e ora senza lavoro.
«E adesso cosa facciamo?» disse qualcuno.
«E che possiamo fare, entriamo e lavoriamo».
Sfondarono i cancelli e fecero la sola cosa che sapevano fare: produrre ceramica. Duecento lavoratori che per una vita avevano ubbidito al padrone, pieni di paura e inesperti nella gestione di una fabbrica scelsero di rischiare. Mettere in moto i forni autonomamente era un affronto non soltanto a Zanon ma ad un intero sistema e per questo gli operai vennero ostacolati in ogni modo. Spinti da Zanon i fornitori smisero di consegnare le materie prime, la moglie di un operaio venne rapita e picchiata a sangue, gli ordini di sfratto si susseguirono. Furono mesi complicati per gli operai, gli fu persino interdetto l’utilizzo del nome Zanon per vendere la ceramica, tuttavia, reagirono colpo su colpo. Fecero delle collette per comprare i materiali (sabbia e argilla gli venne regalata da gruppi di indigeni Mapuche, anche loro in lotta per la sopravvivenza), istituirono un sistema di sicurezza interna per evitare sabotaggi e crearono una nuova cooperativa, la FASINPAT (Fabrica Sin Patrones – Fabbrica Senza Padroni). Nel 2003 il sistema si arrabbiò sul serio. Centinaia di poliziotti arrivarono in fabbrica per cacciare gli “abusivi” ma gli abitanti di Neuquén si mossero a sostegno degli operai. Cinquemila cittadini circondarono la fabbrica facendo da scudo, c’erano vecchi e bambini, uomini sulle carrozzelle, tutti uniti per dire basta alle ingiustizie. La polizia fu costretta al ritiro.
Oggi la FASINPAT, o Ceramica Zanon, esiste ancora, nessuno è riuscito a sfrattare gli operai. Il Patron diceva che non sarebbero stati in grado di fare nulla da soli, che avrebbero fatto esplodere i forni, che senza esperienza la fabbrica avrebbe chiuso in un anno. Non è andata così. In 12 anni di controllo operaio la produzione è aumentata, gli incidenti sul lavoro sono scesi del 95% e sono stati assunti oltre 200 nuovi lavoratori tra in quali anche la mamma di Daniel. Gli operai della Zanon non si limitano soltanto alla produzione, non si sono dimenticati della solidarietà della popolazione e hanno a cuore il benessere dell’intera società. Con parte dei ricavi della fabbrica hanno costruito un centro di salute in un quartiere disagiato della città, regalano piastrelle alle famiglie che non possono permettersele, realizzano visite guidate in fabbrica con i bimbi delle scuole della provincia per mostrargli come si produce la ceramica e come si può cambiate il futuro. Ma non è tutto oro quello che luccica. Nei giorni in cui visitai la fabbrica venni invitato da un gruppo di operai che facevano il turno di notte a mangiare un asado. Avevano improvvisato una graticola tra due enormi macchine che pressavano l’argilla. Bevemmo fernet e cola, mangiammo la carne più buona del mondo e parlammo a lungo. Un ragazzo mi disse che il controllo operaio significava avere maggiori responsabilità ma stesso stipendio, che se era vero che si sentivano liberi era altrettanto vero che dovevano pensare a un mucchio di altre cose oltre al lavoro. «A questo punto era meglio sotto padrone» mi confidò alla fine della chiacchierata. Durante una riunione del sindacato ceramista ascoltai una frase che mi colpì molto: «lo schiavo difende il padrone perché non conosce altra condizione». E’ vero, tuttavia anche chi ha conosciuto una condizione differente a volte preferisce la tranquillità dell’assenza dell’impegno. La mediocrità può essere una strada comoda. Una delle cuoche della fabbrica mi disse che finalmente poteva esprimere le sue idee, che in assemblea veniva ascoltata e che questa era la ricchezza più grande del controllo operaio. Già, una ricchezza ma anche peso, una responsabilità enorme. Essere protagonisti del proprio futuro fa tremendamente paura, la libertà fa paura, averci a che fare è una lotta continua, uno sforzo sovrumano. Essere liberi significa non essere passivi, significa prendere in mano la nostra vita. E’ tosta ma vale la pena provarci.
Non ho raccolto questa storia perché penso che le proposte che ci arrivano dal Latino America vadano applicate tout court anche in Europa. Ognuno ha i propri tempi, il proprio percorso e le proprie peculiarità. Tuttavia la vittoria degli operai della Zanon (nel 2009 il governo di Neuquén gli diede ragione e firmò un documento rivoluzionario che sanciva l’espropriazione della fabbrica al vecchio Zanon e la consegna alla cooperativa FASINPAT) dimostra quanto sia necessario mettere in discussione il pensiero dominante, quello che continua a ripeterci che l’unico modo per affrontare la crisi sia tagliare lo Stato sociale, che una fabbrica non può essere gestita dagli operai e che per fare politica occorra essere dei professionisti. Io non ci credo più al pensiero dominante. Non li ascolto più i fatalisti che mi spiegano che un progetto non può essere realizzato perché nessuno ci è mai riuscito e che cambiare il mondo è un’illusione. Gli operai della Zanon ce l’hanno fatta, sono i padroni di una grande fabbrica, sono gli artefici del loro destino. E’ stata dura, come scalare una montagna, ma se ci pensate bene per farlo basta mettere un piede dopo l’altro.”
Alessandro Di Battista – autore di “SICARI A CINQUE EURO” libro/inchiesta sulle origini della criminalità in America Latina

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