Lavoro in Europa, una giungla di tutele

Da Brunougolini


Eserciti di giovani e non più giovani sono spesso in perenne migrazione, in Europa, da un Paese all’altro, passando da un lavoro all’altro. Portano con sé saperi acquisiti ma non tutele e diritti via via conquistati. Ritornano, spesso, «nudi» o quasi. Non esiste, infatti, una «qualsiasi forma di armonizzazione sociale». I principi e le regole «che dovrebbero garantire la protezione sociale e la libera circolazione sono oggi, di fatto, impraticabili a una schiera crescente di lavoratori atipici e precari». È una denuncia contenuta nel progetto Accessor (Atypical Contracts and Cross-border European Social Security Obligations and Rights) discusso in un recente convegno a Londra promosso dal patronato Inca Cgil (capofila Inca Regno Unito) con i partner sindacali Cgil (Italia), Ces (Europa), Tuc (Regno Unito), Fgtb (Belgio), Dgb (Germania), Ccoo (commissioni operaie spagnole).
Questi eserciti in movimento nei vari Paesi europei – spiega un documento – sono costretti a interagire nel corso della loro vita «con molteplici e differenti sistemi nazionali di sicurezza sociale, ciascuno con la propria regolamentazione». Certo i diversi contratti atipici hanno qualcosa in comune: «Minore sicurezza del posto di lavoro, stipendi più bassi e discontinui, meno opportunità di formazione e di carriera, condizioni di salute peggiori, minori diritti sindacali». E condividono una scarsa sicurezza sociale, soprattutto per quanto riguarda le indennità di disoccupazione, nonché forti difficoltà a costruire una pensione di vecchiaia decente.
La denuncia si basa su esempi concreti. È il caso di un lavoratore che in Germania lavora non più di 20 ore la settimana, per una retribuzione lorda non superiore a 450 euro mensili. Costui è assicurato soltanto contro gli infortuni sul lavoro, mentre è esentato dal versamento dei contributi assicurativi per tutte le altre branche della sicurezza sociale. Così non ha diritto a sommare questo periodo di lavoro con altri periodi lavorativi (assicurativi) svolti in altri stati europei.
Un altro caso è quello di una ricercatrice belga, di 31 anni, che nel 2012 si è stabilita in Italia, dove per 6 mesi ha lavorato per un solo committente (un ente pubblico di ricerca) con un contratto a progetto. Ha guadagnato, in quel periodo, 18000 euro e ha versato i contributi previdenziali di legge nel regime speciale italiano a gestione separata. Nel 2013 ha ottenuto un contratto a tempo determinato in un’università di Bruxelles ed è tornata in Belgio. Dopo 8 mesi il suo progetto di ricerca viene interrotto e la lavoratrice resta disoccupata. Avendo versato contributi per più di 312 giorni negli ultimi 18 mesi, avrebbe diritto all’indennità di disoccupazione belga. I contributi versati in Italia, però, risultano come periodo assicurativo di lavoro autonomo, e questo non apre il diritto alla disoccupazione in Belgio. Se fosse rimasta in Italia avrebbe avuto diritto all’indennità di disoccupazione italiana «una tantum» con ancora soltanto un mese di collaborazione a progetto. Essendosi invece stabilita in Belgio, dove ha versato contributi assicurativi per ulteriori 8 mesi, la ricercatrice non ha i requisiti né per la prestazione belga, né per quella italiana.
Una beffa. Se poi la stessa ricercatrice avesse effettuato il suo periodo di lavoro in Spagna anziché in Italia, al suo rientro in Belgio avrebbe avuto diritto all’indennità di disoccupazione totalizzando i suoi 6 mesi di lavoro autonomo economicamente dipendente in Spagna con gli 8 mesi di lavoro salariato in Belgio.
Un altro è quello di un cameriere spagnolo che ha lavorato in Spagna, Italia e Francia, sempre con contratti stagionali di breve durata. Poi si è trasferito in Belgio, sempre come cameriere, ed è restato disoccupato. Qui, però, sommando tutti i periodi lavorativi, l’interessato non ha diritto ad alcun sussidio di disoccupazione.
Un’Europa, dunque, senza confini per merci e capitali ma non per il lavoro. I cosiddetti lavoratori atipici, conclude il documento, sono discriminati «non una, ma tre volte: hanno redditi bassi e precari quando lavorano, sono scarsamente coperti dai sistemi di sicurezza sociale quando restano disoccupati, perdono una parte dei loro diritti quando si spostano in un altro stato Ue». Ricercatori, camerieri, informatici, atipici e precari in viaggio per il mondo attraversano una giungla sociale. Un allarme che dovrebbe far capire che non basta l’impegno nazionale. Politica e sindacato debbono varcare i confini.

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