Tra i milioni di parole che si sono depositate in questi giorni tra Grecia e G di vario genere ne manca una fondamentale: lavoro. Si sente parlare di tutto, di euro, di banche, di project bond, di strategie, di fondi, ma il vero grande malato dell’economia occidentale anzi della civiltà occidentale non viene mai nominato e quando proprio è impossibile non fare qualche riferimento si parla castamente di produttività, sottintendendo che ancora sacrifici e furto di di dignità e diritti.
Non è un caso: la sola evocazione della parola è in grado di spezzare l’incantamento dei ragionamenti circolari della finanza, di ammutolire il modo con cui i grandi e i piccoli vivono dentro l’irrealtà di un paradigma trentennale, pensando di poter combattere la crisi di sistema con le idee e le prassi che hanno dato vita al sistema stesso. Così al massimo si parla di occupazione e disoccupazione che sono quantità numeriche, astratte, che prescindono dalle connotazioni che ha il lavoro ha acquisito in due secoli di lotte: dignità e diritti. Di questo non vogliono nemmeno sentir parlare in quei consessi per il quale non c’è nessun Beethoven che scriva un inno all’idiozia.
E naturalmente la parola manca anche al lessico degli stoccafissi dei media che ancor più dei potenti rimangono nel sonno dogmatico, vinti dalla sindrome del maggiordomo. Eppure solo a pronunciarlo – ecco, lavoro – questa scandalosa eresia per i salotti buoni della finanza, si capirebbe bene perché la Grecia non è stata affatto una vittoria per la troika, perché l’Europa politica è più lontana di marte, perché la crisi non passa e anzi si aggrava, perché l’euro sta diventando un veleno, perché la creazione di denaro dal denaro alla fine è un buon modo per suicidarsi. L’economia che capisce solo il profitto e l’offerta,rifiutandosi di vederne la dipendenza funzionale dalla domanda, elide appunto ogni problema sociale e diventa alla fine irreale.
Così vedi questi tizi che parlano incessantemente di miliardi da dislocare alle banche, di stato minimo, anche se poi ferocemente represssivo nel suo minimalismo, di produttività senza acquirenti, di grandi opere che rischiano di essere senza utilizzatori, affannati come cani che si mordono la coda. E vedi le persone che sono costrette alla precarietà assoluta, alla mancanza di futuro, alla negazione sociale, persino prese in giro dai governanti che evacuano i loro sorrisi alle cene ufficiali. Sono accanto al vulcano e non se ne accorgono, non sono più in grado di comprendere la realtà, sono il ritratto del tramonto dell’occidente per le ragioni esattamente opposte a quelle di Spengler. Anche se vedendo il comportamento di certe classi dirigenti e politiche, specie nel sud Europa, capaci solo di attaccarsi a convenienti feticci e a svendere i gioielli di famiglia, viene da consentire con quel futile visionario che spesso “l’ottimismo è solo viltà”.
Ed è anche la ragione perché un coraggioso pessimismo possa e debba pensare a un riscatto che abbia proprio nel lavoro il suo centro e il suo senso. Lavoro come fonte di valore economico e di rinnovamento sociale, come la speranza e il luogo sui quale ricostruire i legami di civiltà e di futuro. Tutto il resto è noia.