Una piaga per Paesi lontani, poveri, in cui perfino un bambino di 6 anni viene considerato solo come un paio di braccia in più utili per aiutare la famiglia a sopravvivere. L’idea comune è che il lavoro minorile sia questo, invece anche per colpa della crisi economica si sta diffondendo pure in Italia. E i genitori italiani, stremati da anni di difficoltà economiche, sembrano non capire fino in fondo la gravità dell’abbandono scolastico per la ricerca di un impiego: uno su due non si opporrebbe con ogni mezzo al lavoro minorile del figlio, il 54% pensa che la crisi lo giustifichi almeno in parte. Lo dimostrano i dati di un’indagine dell’Osservatorio Nazionale sulla salute dell’infanzia e dell’adolescenza (Paidòss).
(lovepress.it)
Il lavoro minorile non riguarda solo i paesi poveri, ma anche il Belpaese: la percezione degli italiani. Secondo lo studio, il 55% dei genitori italiani crede che il lavoro infantile riguardi solo i Paesi in via di sviluppo. Eppure il 17% conosce la storia di “under 16″ che lavorano, perché sono figli di amici o parenti o perché sono amici dei propri figli; nel Nord Italia la percentuale sale addirittura al 22-24%, segno che il lavoro minorile non è diffuso solo al Sud come molti credono. Resiste tuttavia il pregiudizio verso il Sud, visto che il 40% crede che si tratti di un problema confinato al Meridione. L’indagine è stata condotta da Datanalysis intervistando 1.000 mamme e papà rappresentativi della popolazione generale italiana; obiettivo, fare chiarezza sulla percezione del lavoro minorile da parte di genitori di bambini e ragazzini con meno di 16 anni.
A preoccupare è l’indulgenza dei genitori italiani sul lavoro minorile. “I dati raccolti indicano una preoccupante indulgenza dei genitori italiani nei confronti del lavoro minorile: il 26%, con punte del 33% al Sud, non ci vede nulla di male mentre il 20% ritiene che il giudizio debba dipendere dalla situazione del singolo. Di fatto, non viene condannato senza se e senza ma come ci si sarebbe potuti aspettare”, osserva Giuseppe Mele, presidente Paidòss. ”Così, se da una parte oltre l’80 % ritiene che il lavoro minorile ‘rubi’ ai ragazzini la formazione scolastica l’infanzia e una normale crescita psicofisica – aggiunge Mele – si scopre che a tutto questo si può in fondo rinunciare di fronte alle nuove necessità imposte da una crisi economica di cui non si vede la fine: le difficoltà finanziarie giustificano il ricorso al lavoro di un bambino o un ragazzino per il 54% dei genitori, che ritengono proprio la crisi come causa principale degli abbandoni scolastici nel 35% dei casi”. “Ma ciò che forse turba ancora di più è che solo il 34% delle mamme e dei papà costringerebbe a restare sui banchi un figlio intenzionato a lasciare la scuola per lavorare, impedendogli una scelta dannosa per la sua vita: uno su quattro accetterebbe la decisione pur ritenendola un errore, uno su cinque la considera una volontà da rispettare comunque. Non è così: ogni bambino ha il diritto di essere protetto dallo sfruttamento economico, in qualunque sua forma”.
Dati Unicef: i minori che lavorano sono oltre 150 milioni in tutto il mondo, di cui 115 milioni costretti a correre pericoli considerevoli sul luogo di lavoro. Se è vero che si tratta in maggioranza di piccoli sfruttati in Paesi poveri, non si può dire che l’Italia sia immune da questa drammatica realtà: secondo le stime sono ben 260.000 i minori che lavorano nel nostro Paese, su tutto il territorio nazionale.
Il cambiamento del giudizio sul lavoro minorile a causa della crisi economica. “Il 30% dei genitori italiani – osserva Mele – pensa che il lavoro minorile in Italia riguardi solo gli stranieri, il 55% lo considera un dramma dei Paesi sottosviluppati, il 40% ignora che esistano piccoli sfruttati anche entro i nostri confini. Questa mancanza di consapevolezza esiste anche perché spesso non si ha coscienza delle mille sfaccettature del lavoro infantile: lo si ritiene tale solo quando assume le forme eclatanti dello sfruttamento in fabbrica o dell’accattonaggio sulle strade, in realtà ha mille, subdoli aspetti”. “Anche aiutare i genitori nella loro attività, in un negozio o un’impresa, è lavoro che ruba ai figli tempo che andrebbe impiegato diversamente; essere costrette ad aiutare nelle faccende di casa o nella cura dei familiari, come accade a molte bambine perfino molto piccole, è lavoro minorile domestico che può assumere i contorni dello sfruttamento”. ”Oggi – conclude Mele – il disagio economico sembra spingere molti a ’chiudere un occhio’ di fronte a bambini e ragazzini che cominciano a lavorare per venire in soccorso di un bilancio familiare dissestato, ma l’istruzione nell’infanzia non può essere sostituita con il lavoro: gli impieghi dei minori non hanno mai ‘valore’, non insegnano niente, non saranno utili neppure per costruire un futuro lavorativo”.
“Soprattutto – conclude – far lavorare un bambino o un ragazzino significa negare un diritto umano, il diritto a una crescita personale, sociale e morale in serenità che ciascuno deve avere”. (ADNKRONOS)