Certi posti non dovrebbero legalmente essere autorizzati ad esistere.
E’ una frase che mi sono ripetuta spesso, nei tre anni e mezzo da me passati in quel posto. Una compagnia in continua espansione che da’ pane a centinaia di persone ad un prezzo che nessun Paese civilizzato dovrebbe accettare di veder pagare dai suoi dipendenti.
E non sto parlando dell’Italia. Sto parlando dell’Inghilterra. L’Inghilterra, con le sue Unions da una parte e i suoi contratti ambigui e ai limiti del legale dall’altra. Contratti fotocopiati in tamburo in cui l’unica firma e’ quella del dipendente, non di un supervisore o di un manager o delle Risorse Umane. Quando chiesi di avere una cencio di firma sul mio contratto, dopo avervi apposto la mia sulla loro copia, in risposta ricevetti un “oh, shhhittt!” sibilato tra i denti. Perche’ quell’oh, shhhittt! non era per me. Era la risposta esplicativa a quel minimo di diritti che stavo recriminando con la mia richiesta di una copia del contratto firmata da loro.
Sono andata via tre anni e mezzo dopo che la stavo ancora aspettando.
In Italia, forse, parte di quello che ho vissuto io li’ dentro puo’ essere la norma (con somma vergogna per il nostro Paese e la sua Costituzione). In Inghilterra, di sicuro, no. Non lo e’. Il fatto che le compagnie che lavorano esclusivamente con gli immigrati lo facciano non lo rende moralmente corretto, ne’ legalmente condivisibile.
Da nessuna parte puo’ essere considerato umanamente accettabile il condurre i propri dipendenti sull’orlo del baratro. L’annichilimento umano e’ qualcosa che dovrebbe rimanere confinato alle pratiche portate avanti da certi regimi nel secolo scorso. Dovrebbe restare confinato ai tempi in cui Manchester era una coltre di polvere di carbone e famiglie intere crepavano nelle fabbriche per pochi scellini la settimana. La mia esperienza mi ha insegnato che, nella testa di certi imprenditori, il ricatto morale e subliminale e’ ancora una pratica utilizzabile per spremere i propri dipendenti fino al midollo e continuare a farlo anche quando di loro non c’e’ rimasto piu’ niente.
E la compagnia in cui sono stata io non e’ di certo l’unica, nell UK. Perche’ quando si tratta di dare il pane agli immigrati, la sete di profitto si scatena. Calpesta tutto. D’altra parte, sono solo degli immigrati. Se vogliono pagare le bollette, devono restare. Con la crisi che c’e', dove vogliono andare? La compagnia in cui sono stata io non rilasciava nemmeno le referenze. A me venne dato un foglio con su scritto: non e’ nella nostra politica rilasciare referenze che agevolino l’assunzione del candidato da parte di altre aziende. In pratica, dare quel pezzo di carta a qualunque potenziale datore di lavoro equivaleva a un suicidio.
Ma, come ho detto, nessuno di noi conosceva i propri diritti. Se li conosceva, non sapeva come metterli in pratica. Si aveva paura a metterli in pratica. Anche se, per cominciare, sarebbe bastata una richiesta anonima di consulto presso il Tribunale del Lavoro. E se poi mi scoprono lo stesso, e se poi l’ACAS lo dice ai miei capi, e se poi perdo il lavoro, e se poi rilasciano referenze negative? E se, e se, e se. Si campava di “se”. Ma nessuno, coscientemente, si chiedeva mai il “se” piu’ ovvio: e se di questo lavoro di merda dovessi creparci?
Quella e’ una domanda che ti fai dopo, se e quando hai la benedizione divina di uscirne fuori.
Avevo cominciato nel callcentre. Agente del mercato italiano, orari su turni variabili tra le 8 del mattino e le 10 di sera. Pensavo non esistesse nel mondo lavorativo nulla di piu’ denigrante del prendere chiamate per 8, 10 ore al giorno dai miei connazionali. Mi sbagliavo. Non avevo ancora avuto a che fare con gli inglesi. Quando mi “promossero” al Servizio Clienti, capii.
Un anno e mezzo al telefono con gli italiani e il massimo che mi ero presa era stato un “vaffanculo” da un gioviale agente di viaggi che aveva fatto un’evidente minchiata con una prenotazione. Perche’ gli italiani urlano, insultano, sbattono, ma coinvolgono l’azienda intera, non te personalmente. Gli inglesi, invece, quando sono in torto – e, se urlano, lo fanno perche’ sono in torto – aggrediscono. E aggrediscono non l’azienda, non chi ha inventato quelle righe piccole cosi’ plasmabili e facilmente assogettabili al profitto aziendale, no: loro si scagliano contro di te. Te persona, te agente, te povero cristo che ti sei preso la sua chiamata. Me ne sono sentita urlare addosso di ogni genere, in due anni al Servizio Clienti. Abbastanza da far sentire una merda anche gente a cui della propria persona e amor proprio non frega niente. E noi dovevamo stare li’, con la faccia paonazza, gli occhi lucidi, le mani tremanti, in silenzio ad aspettare che smettessero di urlarci nelle orecchie “brutta immigrata di merda non capisci un cazzo io voglio parlare con un inglese, CAPITO?”
Non potevamo riagganciare.
Non potevamo rispondere altro che “mi dispiace che si senta cosi’.”
Mi dispiace che si senta cosi’.
L’ipocrisia d’Albione all’ennesima potenza.
Quando partivano gli insulti, eravamo autorizzati a ricordare al/alla cliente (eh, gia’, nelle compagnie low-cost anche le clienti sanno essere degli esempi di raffinatezza linguistica!) che avremmo riagganciato, se avessero continuato cosi’. Tre volte. Solo alla terza potevamo riagganciare, ma quasi nessuno lo faceva mai perche’, resi balbuzienti dall’agitazione, permettevamo al cliente di prendere il controllo della chiamata e la possibilita’ di chiudergliela in faccia ci sfumava tra le cuffie.
Il vero problema non era tanto quello che i clienti ci urlavano nelle orecchie tutti i giorni, quanto piu’ la pressione che ricevevamo dall’al di qua del telefono.
Target, straordinari, ferie, bonus, licenziamento: solo alcune tra le paroline magiche con cui tenere per le palle i dipendenti e far fare loro praticamente tutto quello che vuole il business.
Davano dei target irraggiungibili anche con 12 ore di lavoro e volevano che li raggiungessimo in 8. Poiche’ in 8 era impossibile, ecco che scattava la richiesta degliovertime, ovvero degli straordinari. “Volontari”, aggiungevano. Ma, a conti fatti, sotto banco e ufficiosamente erano obbligatori. Perche’ chi non offriva overtime o offriva troppe poche ore, si vedeva misteriosamente annullare le richieste di ferie, o i conti del bonus sulla busta paga non tornavano, o arrivava l’email che richiedeva l’incontro faccia a faccia nella fatidica stanzetta dove a voce, quindi senza che uno potesse poi provarlo fuori a meno di avere una cimice addosso, ti spiegavano che se volevi andare a casa a Natale allora facevi bene a venire a lavorare per i prossimi n+1 sabato.
Le ferie erano (sono) la prima arma di ricatto usata in tutti i dipartimenti di quel posto. Ero ancora nel callcentre quando arrivo’ dalla manager del mercato italiano l’email da noi ex tutt’oggi citata e intitolata “a favour for a favour”. Avrei dovuto tenerla. C’era praticamente il riassunto delle tecniche di ricatto usate dai supervisori per costringerci ad accettare i turni da 10 e 12 ore durante l’estate.
Quando passi 12 ore al telefono prendendo una chiamata dietro l’altra, senza tregua, la sera torni a casa che a malapena ricordi il tuo nome. Non sai dove trovare le energie fisiche e psicologiche per alzarti dal letto la mattina dopo, soprattutto se hai davanti a te una giornata identica a quella appena terminata. Non hai nemmeno la motivazione per farlo. Non stai lavorando per te. Stai lavorando per altri. Non stai nemmeno facendo un lavoro nel tuo ramo. Non ti stai costruendo niente. Le prospettive di carriera che l’azienda offre non le vuoi, perche’ significherebbe triplicare le pressioni e i ricatti che hai addosso gia’ ora per uno stipendio altrettanto da fame.
Forse dovresti andartene. Licenziarti. Quello puoi farlo.
Pero’ ieri e’ arrivata la bolletta da pagare e la settimana prossima c’e’ l’affitto e hai gia’ speso i risparmi nel biglietto per l’Italia. Spegni l’abat-jour, ti metti giu’ e provi a dormire e sai che domattina in qualche modo ti alzerai da quel letto. Non ti licenzierai. Andrai avanti.
Non puoi ancora sapere, all’inizio della tua esperienza in quel posto, che di li’ ad un anno ti ritroverai a chiudere gli occhi la sera e a pregare di non riaprirli per niente la mattina dopo. Non puoi ancora sapere, all’inizio, che andrai a dormire la sera senza piu’ sapere chi sei, perche’ hai lasciato l’Italia, che cosa volevi trovare e che cosa vorresti ottenere. Lo sapevi, ma i sogni e le speranze riposti nel tuo Paese d’adozione si sono sgretolati uno squillo del telefono dopo l’altro.
Non puoi ancora sapere come la negativita’ assorbita ogni giorno, esattamente come la stanchezza, e’ qualcosa che si accumula e che richiede tempo prima di cominciare a riemergere, distruggendoti il presente dall’interno.
Non puoi ancora sapere che arrivera’ il giorno in cui ti sentirai esattamente come clienti da una parte e superiori dall’altra inconsciamente vogliono che tu ti senta: una nullita’. Una macchina da target. Un essere non pensante che fa copia-incolla su una tastiera.
Sei un ingranaggio che permette alla macchina-azienda di funzionare e a quelli in cima al triangolo di accumulare i milioni. Per quanto riguarda te, invece, te ingranaggio del cazzo, pigliati ‘sti 850 pound e non scassare.
Il 5 Gennaio 2012, appena rientrata dalle ferie, inserii nel sistema la mia richiesta di ferie per il Natale successivo.
A meta’ Ottobre me ne andai e la richiesta di ferie era ancora li’, pendente. Per dieci mesi il microcefalo che avevano messo al timone del nostro dipartimento si era rifiutata di dirmi di che morte dovevano morire le mie ferie. Rifiutate? Approvate? Da riorganizzare? Non si sa. Cosi’ come non si sa quante volte le chiesi di darmi una qualunque risposta. Ma, forse, riconosco oggi di aver preteso un po’ troppo dal suo unico neurone. Se avesse dovuto mettersi a ragionare su cosa farne delle mie ferie, avrebbe smesso di respirare.
Sarei potuta andare piu’ in alto. Avrei potuto chiedere aiuto a Risorse Umane. Ma Risorse Umane, in certi posti, e’ tutto fuorche’ imparziale. Esattamente come era accaduto con tutto il resto, quindi, alla fine me ne manco’ il coraggio. Un altro effetto della pressione psicologica costante creata ad hoc per indurre noi dipendenti sul sentiero che il management aveva spianato – ma facendoci credere che fosse una nostra libera scelta – era il vivere col terrore costante del controllo e del complotto. Pensavo di essere paranoica. Poi mi sono confrontata con decine di altri colleghi ed ex colleghi. Tutti hanno confermato la stessa cosa: ragionare su complotti degni di James Bond era successo di continuo anche a loro. Non sapevamo mai se, come, dove o quando il management avrebbe potuto scoprire quello che avevamo fatto. Anche quando si trattava di richiedere assistenza per la difesa di un diritto basilare del lavoratore come il diritto alle ferie, noi evitavamo di metterci in moto. Combattevamo nel nostro piccolo. E perdevamo. Se rifiutavamo di fare overtime dicendo “ho una vita”, loro rispondevano con un’alzata di spalle dicendo “beh, ma teoricamente nel contratto c’e’ scritto che devi raggiungere il target stabilito dall’azienda, e raggiungere il target significa che prendi il bonus, e se per raggiungere il target devi fare overtime, fallo, perche’ se invece non lo raggiungi significa che non stai rispettando il contratto”. Ovvero: siamo autorizzati a licenziarti. E ‘fanculo al fatto che quel target non lo raggiungerebbe neppure Mandrake.
Quando ero al callcentre dovevo chiedere il permesso per andare in bagno. Quando mi spostarono al Servizio Clienti in bagno potevo pure andarci, ma solo se non arrivava qualcosa di urgente, il che significava rischiare la morte prima di riuscire a vedere un bagno. Quindi, di nuovo, non bevevo. E se i reni, ridotti a due uvette sciroppate, cedevano, non potevo nemmeno assentarmi e andare dal medico.
La malattia non era pagata. Era il governo a coprirti lo stipendio, quando stavi male, ma solo dal quarto giorno in poi. Se non ti presentavi al lavoro, fosse anche per un giorno, poi venivi sottoposto all’Inquisizione spagnola. Volevano la prova che tu fossi stato/a effettivamente male. Che prova vuoi che ti porti, se sono rimasta a casa spaccata dai dolori del ciclo o abbracciata alla tazza per avvelenamento da sushi?
Non c’e’ nulla di peggio di un disonesto che vede disonesta’ anche negli altri.
Per loro non eravamo stati male. Per loro non ci eravamo presentati al lavoro perche’ eravamo andati a un colloquio da qualche altra parte.
In molti casi, avevano ragione.
Avrei dovuto farlo anch’io.
Io e i miei colleghi eravamo tutti sulla stessa barca, sprofondati fino al collo in un mare di melma eppure con addosso ancora abbastanza energie da continuare a remare per tenere fuori almeno la testa.
Ma le energie non durano per sempre e la motivazione e’ l’unica arma che ti rimane in certe situazioni. Andata via quella, ti lasci scivolare verso il fondo. Quel posto aveva (ha) la capacita’ di uccidere i sogni e le ambizioni delle persone. Trattato tutto il giorno come una macchina, insultato dai clienti da una parte e ricattato psicologicamente dai meccanismi dei target e degli straordinari dall’altra, arrivi ad un punto in cui la crepa raggiunge il fondo e ti spezzi. Smetti di vedere una via d’uscita dalla tua situazione. Smetti di avere voglia di fare le cose che ti piacciono. Smetti di dormire. Smetti di goderti i giorni liberi e le vacanze diventano un inutile spreco di soldi: sei cosi’ spento da non goderti nulla di quello che vedi intorno a te. Sei cosi’ stanco da non avere le forze neppure per concepire di metterti a cercare un altro lavoro. Ogni tanto ci provi. Poi qualcuno ti ricorda che, per contratto, cercare un altro lavoro senza aver prima dato le dimissioni va contro la fottuta policy aziendale. Dove sta scritto, non si sa. Forse in una di quelle righe ambigue che nemmeno loro capiscono. Eppure, ci provi lo stesso. Mandi CV in giro. Nessuno, pero’, ti risponde. E nel trascinarti avanti, nel cercare di sopravvivere al presente passano mesi, passano anni. La vita privata ne esce deteriorata, perche’ nemmeno per parlare con la tua famiglia hai energie a sufficienza. E arriva il momento in cui smetti di registrare quello che ti succede intorno, in cui ti chiudi nel tuo bozzolo e pensi solo ad affilare un passo dietro l’altro per sopravvivere fino al giorno successivo. Tua nonna in Italia muore e tu una settimana dopo la sua morte sei ancora li’, a chiedere come sta. Da Dio, sarebbe la risposta che meriteresti di ricevere. Letteralmente da Dio, dovrebbero aggiungere. Ma non lo fanno. Ti chiedono solo quand’e’ che te ne andrai da quel posto di (aggiunta di aggettivi sempre diversi e variegati). E tu, nel subconscio, senti una lama che ti punge sul vivo perche’ sai che hanno ragione.
La busta paga a fine mese era un’altra delle grandi scommesse di quel posto. Perche’ magari avevi lavorato come un somaro e ti eri sparato le tue belle 20, 30, 40 ore di overtime in un mese al fine di arrivare a raggiungere il loro target impossibile e prendere cosi’ il bonus, e invece quello che ti ritrovavi in mano era lo stipendio di base.
E il mio bonus che fine ha fatto?!?
Lo hai perso, ti rispondevano. Perche’, vedi, da quando hai raggiunto il target a quando noi abbiamo calcolato il target per il bonus, questo, questo e quest’altro cliente hanno fatto questo, questo e quest’altro e quindi i loro numeri sono stati detratti dal totale del tuo target e quindi non hai raggiunto il limite minimo per arrivare al bonus.
Sorry about that.
E io sono stata anche fortunata, perche’ da quando me ne sono andata, piu’ di un anno fa, le cose sono peggiorate – ammesso che potessero andare peggio di com’erano, ma, come si suol dire, ad esso non c’e’ limite.
Se prima prendere qualche soldo in piu’ sulla busta paga era un miraggio, adesso e’ diventata una barzelletta.
In fondo, perche’ non dovrebbero provarci? Perche’ non provare a tagliare ancora?
Sanno che, tanto, nessuno si licenziera’ mai, con la crisi che c’e’. Un lavoro di merda e’ sempre meglio che non averne.
Il profitto non nasce dal nulla. I milioni non si accumulano vendendo lupini. Nel tuo piccolo, pero’, hai la bolletta della luce da pagare, e la spesa da fare, e l’affitto, e la macchina, e magari anche dei figli. Ascoltare la coscienza e’ un dettaglio che non puoi permetterti. Obbedisci, perche’ e’ per seguire la procedura che ti pagano. Qualunque sia questa procedura e qualunque sforzo morale richieda. E mi fermo qui.
Un giorno mi arrivo’ un’email da un cliente italiano al quale avevo rifiutato nuovamente la richiesta. La mia era stata un’email standard, di quei template approvati dal business e in compliance con la loro procedura aziendale inglese. Nessuna empatia, nessuna riga aggiunta a mano, personale. Anche l’empatia, dopo tre anni e mezzo, era un lusso che non potevo piu’ permettermi. Me l’avevano estirpata a forza, con sommo lavorio, con anni di meeting faccia-a-faccia e messaggini subliminali.
Il cliente, pero’, non mi mando’ in risposta un template. Il cliente si prese il suo tempo e mi scrisse un’email di suo pugno. A distanza di un anno e mezzo me la ricordo ancora a memoria.
Mi chiese perche’ avessi mandato quella mail.
Mi chiese se non mi fossi sentita uno schifo, come essere umano, per aver dato delle spiegazioni cosi’ disumane a quell’appropriazione indebita dei risparmi della sua famiglia.
Mi chiese se provavo vergogna almeno un po’, o se portare a casa lo stipendio a fine mese giustificasse mandare alla gente comune, che i soldi non li trovava certo per terra, delle comunicazioni del genere.
Si augurava di no. Si augurava che avessi solo seguito la procedura perche’ impostami dall’alto.
Fu la classica goccia che fece traboccare il vaso.
Tornata a casa, quella sera, mi sedetti al computer e compilai la mia lettera di dimissioni.