Magazine Cultura
Era successo che, pur non essendo un filologo stretto (e, in realtà, neanche alla larga), avevo comunque assimilato gli umori di una metalingua letteraria e ciò mi consentiva di affrontare anche argomenti lontanissimi dai miei interessi specifici, perché riconoscevo nell'interlocutore qualcuno che apparteneva più o meno allo stesso ambito. Le parole, come si suol dire, venivano da sole. Alcuni anni dopo, a Berlino, avrei avuto modo di parlare, con pari difficoltà tanto del museo che avevo visto o della spesa che dovevo fare quanto dell'argomento della mia tesi di dottorato: questo perché l'apprendimento del tedesco, per quanto necessariamente più faticoso, è stato comunque più organico e non ha avuto un retroterra letterario come il mio francese. Si aggiunga pure che il lessico base di origine germanica è spesso irriconoscibile e ostile a un primo approccio, né ha quella familiarità di una qualsiasi lingua neolatina.
Oggi potrei parlare meglio nella lingua di Goethe e Mann che non in francese (e ho detto tutto sul mio povero, negletto, francese), proprio perché la difficoltà specifica della lingua tedesca - fortemente espressiva - si è creata il suo spazio in modo organico in me e non ha fatto in tempo a specializzarsi in un esclusivo periodare letterario: ho imparato la lingua stando lì, con i tedeschi, non in una stanzetta solitaria con i miei eroi di carta. Ma non è questo il punto: la domanda che mi pongo è se, a prescindere dal linguaggio tecnico dei termini retorici - tutti di origine greca e poi latina - e a prescindere dal lessico effettivamente maturato e acquisito, esista una metalingua letteraria, una specie di Letteratura L2... che poi, in certe condizioni esistenziali, diventa una lingua prima (ma questo è ancora un altro discorso).
Nella mia esperienza di insegnante direi di sì, che esiste. Qualunque professore di materie umanistiche in un liceo, nel passaggio dal biennio al triennio, avverte nei suoi alunni una fondamentale inadeguatezza, i ragazzi sono perlopiù impreparati a un ragionamento che sembra loro spesso marziano. Una delle finalità delle mie programmazioni è, chiaramente indicata, quella di fare, dei miei alunni, dei lettori attraverso un corso di letteratura. Mi interessa, cioè, che al termine del triennio, abbiano acquisito non solo dati storici e tecniche di analisi, ma proprio un gusto a un universo concettuale altro, che non è detto si arrivi sempre a conquistare (anche per fior di intellettuali). Mi accorgo che lo sforzo che deve fare un docente equivale per tipo a colui che deve insegnare un idioma straniero, ma moltiplicato, perché non esistono morfologia e sintassi che bastino a introdurre alla categoria del letterario, o anche solo a spiegarla a posteriori per chi - come me - sia più orientato a un metodo induttivo.
Se si escludono le epoche e le tendenze nominate, a vario titolo, "classicismi", una delle caratteristiche di questo strano linguaggio consiste proprio nell'eterogeneità del fenomeno. Ciò accade anche e soprattutto nella didattica con criterio storicistico, che poi soggiace sempre a precise e consolidate categorie estetiche: voglio dire che non si studierebbe la storia del sonetto da Giacomo da Lentini fino ai petrarchisti e a Saba se non si fosse consolidata una preferenza espressiva per quella forma, a pregiudizio di altre. Si possono anche spiegare i motivi storici di queste predilezioni, ma facendo ancora appello ad altre categorie di origini diverse. Per chi, come me, sia un convinto sostenitore del complesso rispetto al semplice, dell'eterogeneità dei fatti e dei fenomeni rispetto alle catene dei sistemi totalizzanti (per quanto ne apprezzi lo sforzo), la didattica della letteratura si basa su un continuo aprirsi e richiudersi di temi, orizzonti culturali, presenze di costanti e di infrazioni.
La letteratura è riducibile a storia letteraria solo ed esclusivamente a patto di dissanguarla della sua vita, delle sue spinte contrarie che in realtà le ridanno vita. Questo significa, è vero, che proprio quando il percorso funziona i ragazzi sono bombardati da una pluralità di tagli, di visioni, di correspondences tali da rendere difficile la maturazione di un quadro unitario e organico (o, detto in termini didattici e di vita reale in una classe, tali da creare confusione e panico nel momento delle verifiche orali, e i miei alunni appena maturati ne sanno qualcosa). Posto che cerco di dare sempre coordinate spaziotemporali e di chiarire temi e snodi fondamentali, con l'uso di tutti gli ausilii più vieti e discutibili del mondo, accetto il rischio perché per me avviare allo studio della letteratura significa mettere le mani in pasta, fare letteratura, insomma. Direi che mi sembra perfino di tradire lo spirito storico della didattica letteraria senza questo bagno di risonanze e discordanze interne.
Perché di ciò mi sono convinto: l'apprendimento di un nuovo linguaggio, di una nuova testualità si basa, dentro e fuor di metafora, su questa catena di risonanze, di nessi precisi e insieme indefinibili, di cortocircuiti guidati e subito corretti. Tale meccanismo, fatte salve le specificità storiche, va acquisito per tutte le storie letterarie e non presuppone un gusto specifico per la lingua, ma collabora a crearlo. Per questo, pur comprendendola, non condivido la lamentela dei colleghi che non vogliono ridurre il "povero Cesare" a una palestra per spiegare un'ennesima volta la perifrastica passiva impersonale e dicono di puntare prima sull'aoristo e poi su Omero: non è vero che prima viene la grammatica e poi la comprensione del testo, con la mia breve esperienza sul metodo natura ormai me ne sono convinto, i ragazzi devono maturare in modo armonico, e senza riduzioni unilaterali, nelle diverse forme di linguaggio, trovando nell'ora di classico o in quella di storia letteraria non solo il viatico preferenziale per un buon voto, bensì la propria via d'accesso a questa macrolingua seconda che è la letteratura.
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