[L/D] Nell'insegnare le letterature, i profili storico-critici si alternano a descrizioni di sfondi culturali, dove gli avvenimenti sono solo gli anelli di una catena che risulta tutt'altro che avventurosa. Un approccio ancora descrittivo si usa anche per quei periodi-giunzione, ridotti spesso a concetti (es. tipico il barocco), dei quali si dice poco, al più quel che basta a passare da un'esperienza letteraria a un'altra. In questo modo l'affabulazione diventa il contenuto, l'oggetto della disciplina e non anche il criterio didattico: non ci sono strategie che tengano, un insegnamento che non "racconti" rischia spesso di fallire.
È un po' la stessa cosa che capita con la storia: se la tendenza, diciamo così, "moderna" della lunga durata, affascina per il prevalere della vita quotidiana, con il suo immediato e concreto realismo e la resistenza a tutti nota nel cambiare, è anche vero che una storia che si configuri come una concatenazione molto lasca di eventi perde presto pregnanza. Il rischio è che ci si riduca ad accumulare informazioni perdendo la linea del tempo, il significato evolutivo di quei dati stessi. La storia, cioè, finisce con il ridursi a tappezzeria di una casa senza vita, dove non accade niente.
L'equilibrio tra il criterio evenemenziale e la "lunga durata" è molto difficile da ottenere e non è sempre, in astratto, auspicabile. Voglio dire che non si tratta tanto di dosare in parti fisse (e meno che mai uguali) descrizione e narrazione, bensì di essere padroni del proprio modo di usare l'uno e l'altro con i ragazzi. Né valgono strategie in apparenza trasversali come i percorsi tematici - la città, l'amicizia ecc. - da parecchi anni ormai in voga e al centro dei dibattiti e delle più vivaci tifoserie e polemiche. Non funzionano, intendo, perché intanto presuppongono un'analisi non condotta in classe e poi si riducono nella maggior parte dei casi a tic in determinati momenti (quelli che, con approssimazione, per comodità definiremo qui in blocco "curtensi") e forzati, fasulli in altri.
Ma la narratività perde un'ulteriore occasione quando si pensi che in letteratura gli avvenimenti sono gli autori e le opere su cui si posa l'obiettivo dell'insegnante, il quale a quel punto non può far altro che soffermarsi sui dettagli, regolare zoom, focale, luminosità e pure correttori di esposizione, ma adoperando sempre un criterio statico. Non solo non c'è nulla di male, anzi è addirittura irrinunciabile costringere gli adolescenti a soffermarsi su un aspetto, su un problema, su una figura, ci mancherebbe: quello che deve spingerci ad agire deve essere il modo in cui si arriva a questo risultato (posto che - a mio avviso - si dovrebbe riconfigurare l'insegnante da colui-che-insegna a colui-che-fa-imparare).
La sfida è seria, specie per temperamenti analitici come il mio, che tendono a descrivere. a focalizzare, a dibattere, ad approfondire piuttosto che a raccontare. E un tale cimento ha le sue ricadute in scelte didattiche precise. Per esempio, l'uso del metodo natura, di cui ho spesso parlato, è un modo per costringere la didattica a prendere una strada meno impervia nello stimolare il formarsi delle conoscenze dell'alunno. La grammatica viene appresa nel contesto di una storia e questa storia introduce poi - per come sono organizzati i corsi - alla più ampia storia letteraria; ovvero la narrazione - attraverso il metodo induttivo - si sostituisce alla descrizione nella fase in cui il ragazzo viene a contatto con la nuova "regola".
Rimane il problema enorme, comune a qualunque tipo di didattica delle libertà, che consiste nella responsabilità dell'alunno in fatto di studio autonomo e memorizzazione: rimane, e non dico solo per sgravare noi insegnanti, per il semplice fatto che anche l'alunno più volenteroso e capace, nell'apprendere, riorganizza la materia, spesso in modo davvero personale. Ciò è un bene, ma dovrebbe aiutare anche a stemperare tutta questa tensione sugli obiettivi e le finalità: perché gli obiettivi e le finalità stanno dentro i ragazzi, sono i ragazzi, e mandare avanti tutti gli alunni ciecamente in nome del criterio aziendalistico dei risultati - o con l'alibi di una psicologia debole e chioccia - significa privare le persone dell'indispensabile sfida con se stesse, indebolirle spesso irrimediabilmente.
N.B. Chi per principio dice che non ci sono più alunni seri o motivati o che non sono più quelli di una volta non sa proprio di cosa stia parlando: le intelligenze non mancano affatto, e non sono di minore qualità. Quello che è cambiato, semmai, è una motivazione sociale allo studio e alla disciplina, a credere in sé e nelle proprie curiosità e nel lavoro che si fa, a fronte peraltro della scuola di massa e dell'età scolare sempre più elevata - più per bloccare che per attrezzare a dovere i ragazzi.
Che poi ogni governo preferisca far ricadere la responsabilità sulla scuola e sugli insegnanti con misure tampone e formule esoteriche (B.E.S. & co.) per un problema che è di integrazione - ovvero addirittura di coesione - sociale e che gli insegnanti di norma invece contribuiscono a risolvere nei limiti delle loro competenze e dei loro sempre più scarsi mezzi, questo è un altro discorso.