[L/D] Di fronte a una prova concorsuale, inevitabilmente ci si confronta con ciò che si sa. Si ripassa più o meno tutto ciò che ha a che vedere con il proprio ambito disciplinare (nel mio caso, tutto ciò che è identificabile sotto l'etichetta di Lettere nelle scuole secondarie) e ci si confronta inevitabilmente con la propria ignoranza. Accanto al patrimonio acquisito, ci sono cose che non si ricordano affatto e cose che non si ricorda neanche di aver conosciuto, un tempo. Nasce così la sensazione di avere un po' barato fino a quel momento e di essere giunti infine alla resa dei conti
Naturalmente non è così. Sul piano tecnico, un concorso è un esame come un altro (che poi l'emozione giochi brutti scherzi si sa, ma è ben altro discorso). Ci si prepara, dunque, come per un qualsiasi esame e, grazie al cielo, non mancano precedenti in merito. Un laureato ha, alle spalle, un numero variabile, ma sempre alto, di confronti e valutazioni alle spalle: verifiche sul sapere e, talvolta, sul saper fare. Col tempo, si acquisisce una dimestichezza con l'evento che potremmo riassumere con il nome di tecnica. Lo sanno benissimo i centri di preparazione agli esami universitari (presso uno dei quali molti anni fa ho lavorato anch'io) che mirano a fornire passe-partout, ovvero un insieme di competenze predefinite atte a superare lo scoglio. Attenzione: si tratta di metodi, appunto, per ottenere risultati positivi e un voto sul libretto, non per imparare a concentrarsi o acquisire un abito di lavoro. Solo una grande ingenuità può spingere a equiparare le due cose.
Concentrarsi per una prova significa immagazzinare una quantità notevole di dati o, per essere più esatti, una quantità superiore a quella che, di norma, si ritiene necessaria e, di conseguenza, si tiene a mente. L'esame spinge a strafare, a mutare l'equilibrio di ciò che si è disposti ad apprendere e a inserire nel proprio bagaglio, a portare con sé. Il rigetto post factum non è altro che una conseguenza di un sapere strumentale, necessario e galvanizzante quanto effimero. A molti sarà senz'altro capitato di avere l'impressione di essersi finalmente appropriati di nozioni sfuggite fino ad allora, salvo dimenticarle dopo poche ore. A quel punto si prova un indicibile senso di frustrazione. E allora che si fa?
Credo che il grado di cultura di una nazione, almeno della cultura cosiddetta "alta", sia maggiore quanto minore è lo scarto tra ciò che si è imparato a scuola e quanto si ricorda da adulti. Ma rendere più ardui gli esami (di qualunque ordine e grado) per selezionare persone più "degne" di essere fregiate di un titolo è inutile finché si distingue con un tratto così marcato il momento della verifica (anche a mero scopo personale) da quello della maturazione personale dei contenuti stessi, finché - insomma - ci si continua a esercitare sul lavoro per gli esami. Certo, non ci si può trincerare dietro l'assenza di maturità intellettuale di alcuni alunni e dietro l'alibi per cui non a tutti interessano Foscolo o Milton, soprattutto non lo si può fare a scuola, dove comunque si deve portare avanti - e con successo - un corso di letteratura.
Ferma restando la validità accordata ai titoli di studio (in genere testimoniano di una costanza nel lavoro e della capacità di intraprendere relazioni intellettuali), viene comunque il desiderio di interrogarsi in merito alla loro valenza culturale. Scherzando (ma neanche tanto), sostegno di esserne la prova vivente: se sono riuscito io a laurearmi, abilitarmi alla SSIS e addottorarmi sempre con il massimo dei voti o giù di lì, vuol dire che l'Italia sta messa proprio male. Oppure, magari, non mi sanno spiegare bene cosa sia un titolo di studio, cosa su cui dovremmo interrogarci di più e meglio, non solo in caso di macchine complesse ed epocali come quelle dei concorsi. Allo stesso modo, non dovremmo mai smettere di chiederci cosa voglia dire valutare degli insegnanti per un concorso, in un'era che reclama, e da tempo!, la sempre maggiore privatizzazione della scuola e la conseguente necessità di scelta dei docenti da parte dei presidi.
Direi che in un'epoca di vita on demand, ovvero a capriccio e secondo le esigenze di ciascuno, quest'arbitrarietà indotta nella valutazione delle capacità - e dunque nella scelta di persone adatte a un determinato ruolo pubblico - ferisca molto più che in altre epoche. Non siamo in un'era di vanità, come ci vogliono far credere, viviamo in un'era senza specchi piani, dove tutto ciò che ci riflette è uno specchio deformante, se non anche ustorio. Rimaniamo bruciati sia dall'inconsapevolezza - e dall'insicurezza - sia dalla cruda brutalità del reale presentato senza filtri.