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Le affinità alchemiche

Creato il 23 marzo 2013 da Cinzialuigiacavallaro
 

Utile immergersi in questa storia se si è mamma come me, quindi un romanzo non necessariamente per giovani lettori. La storia narrata è certamente particolare ma, non riconoscendomi per età nei protagonisti, l’ho letto con lo sguardo da mamma e l’ho considerata una lettura utile per entrare meglio nel mondo giovanile.

Uno spaccato del modo di vivere e dei (dis)valori di una generazione che ha priorità certamente attuali ma distanti dalle mie. Un mondo narrato che rispecchia la realtà di una gioventù per la quale tutto è concesso e possibile, senza scrupoli di sorta.

Il titolo riprende con molta audacia e un po’ di spavalderia le affinità elettive di Goethiana memoria, senza davvero esserne

le affinità alchemiche
all’altezza. Il linguaggio è capriccioso come la protagonista Selvaggia: passaggi arditi dal linguaggio colto alle parolacce, dall’anglicissimo parents ad un gergo non immediatamente comprensibile, e il tutto condito da richiami eruditi e ad intermittenza da periodi debordanti.

La storia si trascina un po’, pertanto il libro nel complesso è piuttosto corposo e con una narrazione dilungata che rende la lettura ampollosa e prevedibile a più riprese. La storia d’amore ha tutti i palpiti, le gioie e le difficoltà di qualsiasi amore giovanile ma, essendo così particolare e proibita, funge da calamita per lettori affamati di qualcosa di appetibile e diverso ma romantico.

Tutto ben architettato come le già note Cinquanta sfumature di grigio di Mondadoriana memoria, guarda caso.

Ho dovuto impormi di arrivare alla fine, come l’appena altro citato best-seller, per capire che si può scrivere tutto e il contrario di tutto, purché sia ai limiti e con una sostanza impalpabile che fa da collante non si sa bene a quale effimero significato. E come ciliegina sulla torta il mio amato Shakespeare mi fissava, allibito e perplesso.

 


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COMMENTI (1)

Da Laura Malerba
Inviato il 02 aprile a 17:14
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Angelo Guglielmi mentre ti indica dove guardare (2) di L. & C. Malerba

Le variegate critiche che da ogni dove – da parte dei lettori d’opere di consumo più giovani (o di recensori autorevoli in standby) – piovono sulla testa di quest’opera realmente unica, testimoniano (e monumentalizzano) in modo imponenete, il tipo d’allergia che essa sembra suscitare, ipso facto, in costoro. Eppure, chi riesce a superare l’ostacolo prova un intenso sentimento di complicità personale con l’autrice, e il suo piacere è duplicato all’idea del proprio isolamento relativo (Girard). Questo – ci sembra così facile percepirlo – è il genere di piacere che stanno gustando determinati lettori più avvertiti e in grado di intercettare un po’ meglio di cosa, alla lettera, qui si tratta. Il centro, qual è. Poiché se proprio non sbagliamo tutto, ma non crediamo, “Le affinità” è un invito all’uso della perspicacia e un test piuttosto intrigante per verificare la nostra perspicacia mimetica. Diversamente da così, i fraintendimenti più balzani fioccheranno, e l’umorismo involontario di certo romanticismo più o meno supponente tipo “Ecco, infine, un’opera difficile da caratterizzare”, comincerà a venirvi incontro da tutte le parti. Però sommessamente e nel nostro piccolo noi crediamo che, intanto, occorrerebbe leggere il libro nella sua forma distesa, senza salti in velocità né scorciatoie: è un po’ lo statuto della tessitura musical-lessicale che l’intrama, a richiederlo. Altrimenti vien buono tutto, compresa, insisto, l’inutile recensione su Il Sole 24 Ore opportunamente intitolata – per accogliere un nuovo – “Giovane e subito banale”. Ora, il genio di Gaia si muove in direzione opposta alla scrittura usa e getta entrata massivamente in circolo negli ultimi anni, ma tale è la presa che un simile maëlstrom di riduzioni e svanimenti esercita ormai sulla mentalità dei lettori meno avvertiti, da renderli a furia di mazzate anestetizzati, quasi… condotti sulle oniriche palme d’una morte apparente, quasi… È come se, mancando della percettività necessaria alla comprensione della storia d’amore così com’è stata concepita e scritta da Gaia, il pubblico più giovane (ma non solo) ritornasse alla solita storia romantica e/o“young adult” a cui è assuefatto, riempiendone automaticamente il guscio vuoto con il vecchio contenuto. Ora, Gaia Coltorti possiede il dono di spiegare quel che sta facendo mentre lo fa, in modi la cui forza retorica è tanto sorprendente quanto la ricchezza lessicale. Ma da coloro che non la capiscono, la lingua-cover di cui si sostanzia “Le affinità” appare banalmente appesantita d’ornamenti, un cicaleccio retorico o un “supplemento” che può essere eliminato dal romanzo senza nessun danno. Ma è vero il contrario. Poiché senza quella lingua, il romanzo svanirebbe. Insopportabili sdolcinerie e battute argute, sognanti tenerezze e risate giacintine scambiando baci sotto una luna d’erba nel giardino del padre: oh, persino le bizzarrie (e le incongruenze, persino!) non devono disorientarci – qui – sapendo benissimo che il primo a predisporne ovunque era proprio Shakespeare. Che dire, poi, della quantità di “avvisi” e “osservazioni rivolte direttamente al lettore” – disseminazione di lampeggianti minimi ma anche uso, alle volte, di grosse segnaletiche stradali verticali – grazie a cui l’autrice stabilisce il proprio rapporto con quest’ultimo, alimentando un dialogo continuo? Di simili “avvisi”, nelle “Affinità alchemiche” ve n’è più di millanta, è proprio vero, ma se per leggere adoperi il solito (omissis), è un momentino fatale che anche il romanzo acquisti ai tuoi occhi quella certa forma da (omissis). Gaia, per dirla coi Maestri, è un giovanissimo e perturbante esempio di quel che nella nostra epoca barbara sembra impossibile: poter affrontare con equilibrio e ironia questioni talmente appesantite dal bagaglio al plutonio delle ideologie, che al più timido accenno ci sembra di essere investiti da una valanga. Ancora Guglielmi:

“Scopro che l’autrice ha solo diciannove anni, e non posso non rimanere ammirato; non tanto per la sgradevolezza del tema trattato (e il coraggio di affrontarlo), ma per la sua (di un’autrice ancora quasi adolescente) capacità di raccontare una storia così ardua” servendosi di una lingua capace di non comprometterne “la credibilità”.

Ecco. Cercare di scrivere un romanzo innovativo che prova a rivolgersi al pubblico tradizionale senza scordarsi di quello, non meno fervido, rappresentato dagli “happy few”, i cari pochi sempre volenterosi di intercettare e condividere lo spirito (anche dissacrante, certo) di una ricerca come quella che dà vita alle “Affinità”, ossia a un romanzo miracolosamente condotto a buon fine e di cui Gaia misteriosamente indovina lo scioglimento (Guglielmi). Perenne sfida fra ragazzi, torneo permanente dei sessi: il forte divario – psicologico e in termini d’esperienze – esistente fra i due giovani protagonisti delle “Affinità” non stimola il desiderio di conoscenza, ma se mai quello dell’emulazione (ancora Guglielmi). Possiamo fermarci, credo. Da critico autenticamente d’avanguardia, Angelo Guglielmi, classe 1929, daccapo ci indica dove guardare. Il fondamento a partire dal quale (e intorno a cui) Gaia scrive per pagine e pagine: la parola “emulazione”. O “mimetismo rivalitario”, se preferite, se vi rende più facile rivendicare ciò che realmente, qui, suona appropriato e adatto. È un onesto segnale, accidenti. Realmente coi fiocchi.

Da Laura Malerba
Inviato il 02 aprile a 15:01

Angelo Guglielmi mentre ti indica dove guardare (1) di L. & C. Malerba

Audacia e spavalderia. Ampollosità e prevedibilità. Qualcosa di diverso, ma romantico. E poi: “Sapesse che pene, signora mia, impormi di completare la lettura!” Ma perché soffrire tanto, ci chiediamo. A che – be’, sì – tanta mestizia? Perché punirsi con una pietanza non gradita, in toto masochisticamente sorbendola a mo’ di penitenza? Dopo, infatti, persino delle allucinazioni, in tinello, con Shakespeare travestito da ciliegia che ci fissa allibito, perplesso... Il cartonato dell’edizione Mondadori è in realtà un’abile mossa di qualche cartello messicano della droga che lo utilizza per veicolare allucinogeni liofilizzati all’interno dell’anima in cartone, facendo delle librerie altrettante centraline di spaccio?…
E ancora, la nozione di (dis)valore troppo svagatamente subito spesa, qui, senza nessuna idea certa di cos’è “valore”, specialmente dopo “La sentanza di Nietzsche: Dio è morto”, di heideggeriana memoria… La lettura anche “mesta” (soffertamente composta) della signora C.L. Cavallaro, rappresenta un tale deragliamento dal vero, da renderci certe che i suoi dispiaceri siano, almeno in questo caso, (ma non in quello viceversa super tossico delle “Sfumature”!), patiti invano da dentro una specie d’equivoco fatato. In realtà, a noi sembra che quanti la criticano guardino a quest’opera con sospetto, quasi intuissero che c’è qualcosa di errato nell’interpretazione che ne danno. A proposito delle “Affinità” noi parleremmo piuttosto, nel nostro piccolo, di sapidità e ironia, di diversità antiromantica e utilizzo “ad abundantiam” dei saperi inerenti le dinamiche del desiderio – massime, in Coltorti, le dinamiche riguardanti il desiderio amoroso – messi a nostra disposizione da René Girard…
Romanzo mimetico di inusuale complessità, “Le affinità alchemiche” è costruito in modo tale che addentrandoci in esso facciamo ben presto conoscenza d’un vasto intrico di interazioni mimetiche e una lunga escalation di atteggiamenti rivalitari che, giunti al culmine, sviluppano un tale grado di enormità (Angelo Guglielmi), da sfociare in un violento crescendo di disperazione e morte. Eppure, persino in tanta tragedia, i personaggi delle “Affinità” vengono scopertamente dileggiati, dalla voce narrante, a più riprese. E in effetti, è strano. Poi, quando cominciamo a percepire la distanza che ci separa dalla concezione del desiderio dell’autrice, con aria di scoglionata sufficienza (Roberto Carnero, Il Sole 24 Ore), o fastidio (Ranieri Polese, Il Corriere della Sera), ricorriamo un po’ fatalmenete all’idea del tutto errata che l’autrice – non sapendo gestire quel che dovrebbe, e facendo ricorso a una lingua volta a volta superficiale e vacua (Carnero), o troppo farcita di gerghi giovanilistici, frasi auliche e pseudo-liriche come nei diari di scuola e luoghi comuni (Polese) – non può indicarci cosa dover credere né in che direzione guardare. Nel frattempo, “Le affinità alchemiche” è, fra le molte altre cose, proprio questo: un tentativo ben riuscito di decostruzione di cliché romantici: te ne rendi conto sempre meglio ogni qual volta, entrando più a fondo nel testo, capisci che non è il Mondo a minacciare-perseguitare i due innamorati, bensì la loro insondabile stupidità:

Quanto a Selvaggia, ebbene, lei era radiosa (sic!). Mai l’avevi vista prima altrettanto capace, nei tuoi confronti, di premurosità e consonanza e affetto, talmente attenta alla tua persona, che il sogno ininterrotto dentro il quale con occhi aperti sognavi, non avrebbe potuto risultare più vivido, mentre lo strapotere della felicità vi rendeva – in modo del tutto inaspettato, certo – quasi idioti (sic!). (pag. 292)

Qui, dopo un crescendo d’atteggiamenti concatenati – la premurosità e l’affetto trasmessi da Selvaggia al fratello, il sognare a occhi aperti di lui e l’essere entrambi immersi nello strapotere della felicità – crescendo che conduce il lettore a un adatto apogeo – ecco l’anticlimax dell’autrice che frappone agli elementi nobili e alati, il basso prosaico del rapido trasformarsi, da parte dei nostri innamorati, in due idioti. Ora, quanti dubbi potranno mai esservi, sull’eventualità di dover considerare questo romanzo intramato (anche) di istanze parodiche, vibrazioni copertamente (e scopertamente) umoristiche, e persino – come in tanto teatro elisabettiano (Shakespeare incluso) puntualmente accade – satiriche? Incipit del capitolo 50:

Il vostro amore era una catena indistruttibile che insieme vi legava. Sebbene questo strumento sia di solito associato alla prigionia, per voi era divenuto il simbolo di sentimenti viscerali finché si vuole (sic!) e, tuttavia, positivi. Un’ossessione, certo, ma dolce (sic!). (pag. 225)

Sul serio si può leggere una frase che dice “… sentimenti viscerali finché si vuole (sic!) e, tuttavia, positivi (sic! + gulp)”, senza che le labbra s’increspino in un sorriso? Ora, di simili passaggi, nelle “Affinità alchemiche” ve n’è più di millanta.