Le imprese italiane, spesso appaiono troppo ingessate e gestite in maniera poco propensa all'innovazione.
Investimenti all’estero, internazionalizzazione, joint venture.
Parole importanti dietro le quali spesso però si cela una realtà fatta di arretratezza e scarsa propensione verso l’innovazione e immobilità. Le imprese italiane, salvo qualche buon esempio, a ben vedere appaiono troppo ingessate e gestite in maniera retrograda. Un recente rapporto del Centro studi di Confindustria e Prometeia parla di “ali tarpate del made in Italy” per descrivere la relazione tra necessità di aprirsi a nuovi mercati sfruttando le eccellenze di cui disponiamo e la superficialità con cui viene affrontato il problema.
Nel 2011 l’Italia ha venduto all’estero per 51 miliardi di euro ovvero il 14% del manifatturiero
complessivo italiano mentre ha importato per 136 miliardi. Una
disparità elevata che evidenzia come la propensione dei nostri
imprenditori a far conoscere il proprio marchio all’estero sia ancora
minima.
I problemi che più preoccupano e allontanano gli
investimenti sono i dazi doganali, l’analfabetismo tecnologico, la
scarsa conoscenze delle lingue e il non sfruttamento del canale
e-commerce.
Peppino Marchese, presidente di Iang, società che si occupa di consulenza per l’internazionalizzazione commenta: “Quando
arriviamo in azienda non troviamo manager da formare, piuttosto
capifamiglia, con la moglie in contabilità e i figli nel marketing, da
affiancare. Questa è l’Italia. L’80% del Pil è fatto da aziende così”.
Il responsabile continua citando casi che hanno saputo rinascere dalle ceneri grazie all’apertura verso nuovi mercati: Rovagnati che ora esporta in Francia, l’azienda produttrice di lamiere per Piaggio con sede a Pontedera, un’impresa tessile a conduzione familiare che faceva sciarpe per Missoni, un’impresa di componenti elettroniche per Ferrari e così via.
Secondo Roberto Giovannini, partner di KPMG,
sicuramente non mancano i manager di qualità, la crisi ne ha riversati
diversi sul mercato e spesso a costi contenuti. Invece “manca
il coraggio di cambiare una cultura fossilizzata. E l’esperienza a
lavorare in un contesto internazionale che si acquisisce solo provando,
sbagliando e riprovando. Ma l’esperienza si può anche comprare. Il tema è
il salto culturale. Se prima era un’opportunità, ora è una necessità.
Le rendite di posizione in Italia traballano, le quote di mercato sono
erose sempre più da Turchia e Cina. Ma vedo ancora troppa titubanza. E
questo ci penalizza, soprattutto rispetto alla Germania. Ma dobbiamo
fare in fretta, perché anche i paesi emergenti tendono a proteggere le
proprie risorse”.