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Le ali tarpate del Made in Italy

Creato il 18 giugno 2012 da Smconsulenzaweb
Le imprese italiane, spesso appaiono troppo ingessate e gestite in maniera poco propensa all'innovazione.
Le ali tarpate del Made in Italy
Investimenti all’estero, internazionalizzazione, joint venture.
Parole importanti dietro le quali spesso però si cela una realtà fatta di arretratezza e scarsa propensione verso l’innovazione e immobilità. Le imprese italiane, salvo qualche buon esempio, a ben vedere appaiono troppo ingessate e gestite in maniera retrograda. Un recente rapporto del Centro studi di Confindustria e Prometeia parla di “ali tarpate del made in Italy” per descrivere la relazione tra necessità di aprirsi a nuovi mercati sfruttando le eccellenze di cui disponiamo e la superficialità con cui viene affrontato il problema.
Nel 2011 l’Italia ha venduto all’estero per 51 miliardi di euro ovvero il 14% del manifatturiero complessivo italiano mentre ha importato per 136 miliardi. Una disparità elevata che evidenzia come la propensione dei nostri imprenditori a far conoscere il proprio marchio all’estero sia ancora minima.
I problemi che più preoccupano e allontanano gli investimenti sono i dazi doganali, l’analfabetismo tecnologico, la scarsa conoscenze delle lingue e il non sfruttamento del canale e-commerce.
Peppino Marchese, presidente di Iang, società che si occupa di consulenza per l’internazionalizzazione commenta: “Quando arriviamo in azienda non troviamo manager da formare, piuttosto capifamiglia, con la moglie in contabilità e i figli nel marketing, da affiancare. Questa è l’Italia. L’80% del Pil è fatto da aziende così”.
Il responsabile continua citando casi che hanno saputo rinascere dalle ceneri grazie all’apertura verso nuovi mercati: Rovagnati che ora esporta in Francia, l’azienda produttrice di lamiere per Piaggio con sede a Pontedera, un’impresa tessile a conduzione familiare che faceva sciarpe per Missoni, un’impresa  di componenti elettroniche per Ferrari e così via.
Secondo Roberto Giovannini, partner di KPMG, sicuramente non mancano i manager di qualità, la crisi ne ha riversati diversi sul mercato e spesso a costi contenuti. Invece “manca il coraggio di cambiare una cultura fossilizzata. E l’esperienza a lavorare in un contesto internazionale che si acquisisce solo provando, sbagliando e riprovando. Ma l’esperienza si può anche comprare. Il tema è il salto culturale. Se prima era un’opportunità, ora è una necessità. Le rendite di posizione in Italia traballano, le quote di mercato sono erose sempre più da Turchia e Cina. Ma vedo ancora troppa titubanza. E questo ci penalizza, soprattutto rispetto alla Germania. Ma dobbiamo fare in fretta, perché anche i paesi emergenti tendono a proteggere le proprie risorse”.

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