Fuocoammare
di Gianfranco Rosi
Italia, 2016
genere, documentario
durata, 107'
Se il cinema documentario,
per struttura e competenza, è più
di altri predisposto a radiografare lo svolgersi del reale, questo non vuol
dire che esso stesso non corra i rischi connessi al fatto di sovrapporsi
all’ufficialità dei fatti, e quindi da un lato, di confermare il già detto con
le inevitabili dosi di retorica che tale scelta comporta o, al contrario, di
darne una versione talmente alternativa da costituire un ostacolo alla sua
divulgazione. Per questo motivo non deve essere stato facile per Gianfranco
Rosi trovare la chiave adatta a raccontare quello che sta accadendo in questi
anni a Lampedusa, l’isola siciliana al centro delle cronache per essere
diventata l’approdo del flusso migratorio proveniente dal continente africano.
E qui non parliamo del resoconto nudo e crudo della catena umanitaria che dal
primo soccorso alla sistemazione dei clandestini nei campi d’accoglienza
costituisce la parte più scontata
di un film come “Fuocoammare”.
Il nodo della questione
riguardava una capacità di sguardo in grado di mettere lo spettatore nelle
condizioni di essere parte in causa, oltrechè testimone, dei fatti raccontati.
Si trattava quindi di trasformare l’informazione in qualcosa di più profondo e
duraturo, capace di rimanere impresso nel cuore delle persone. Per farlo Rosi
adotta un racconto a doppio binario che pone in parallelo l’esistenza degli
immigrati sbarcati a Lampedusa con quella degli abitanti dell’isola siciliana.
Una scelta non casuale perché mantenendo separati i due filoni narrativi e facendo
del montaggio - secco ed ellittico – l’anello di congiunzione tra due universi
distinti e separati, il regista riesce ad evocare l’indifferenza del mondo
occidentale, resa concreta dalla mancanza di contatti tra le diverse comunità
ed enfatizzata in ragione di un’unità di luogo che paradossalmente non produce
alcuna familiarità tra gli uni e gli altri, e, al contempo, a costruire un
contro canto ora poetico, ora drammatico, che si alimenta del continuo scarto
tra la vitalità giocosa e
spensierata del piccolo Samuele – uno scugnizzo che sarebbe piaciuto a De Sica e a Truffaut –
inseguito dalla telecamera nelle sue escursioni da un capo all’altro
dell’isola, e gli sguardi smarriti e sofferti dei profughi in attesa del destino che si sta per compiere.
Adottando un impianto formale
che arriva al senso di ciò che vuole esprimere nella commistione tra gli
elementi del paesaggio e la coralità dei personaggi, colti, come già aveva
fatto “Sacro G.R.A.”, all’interno di uno spazio concentrato e periferico, “Fuocoammare”
riesce nell’impresa di suscitare il riso e il pianto, producendo immagini come
quelle che dei corpi senza vita all’interno dei barconi o del pianto di madri
che forse non sono più tali con cui siamo costretti a fare i conti. In concorso
al sessantaseiesimo festival di Berlino il film di Francesco Rosi è tra i più
seri pretendenti alla vittoria finale.