The Green Inferno
di Eli Roth
con Lorenza Izzo, Ariel Levy, Aaron Burns, Kirby Bliss Blanton
Usa, 2015
genere, horror
durata, 103'
Chissà se Eli Roth, prima di dedicarsi a “The Green Inferno”, avrà avuto tempo e la voglia di ripassare i fondamentali
del suo cinema. Se così fosse successo, ci sarebbero stati almeno due titoli
utili a stimolarne la verve creativa: il
primo sarebbe stato piuttosto scontato, essendo “Cannibal Holocaust”
di Ruggero Deodato, un punto di riferimento per quelli come Roth, che decidono
di diriger un horror incentrato
sul tema del cannibalismo. L’altro, crediamo,lo avrebbe spiazzato, trattandosi di uno dei film più
sottovalutati e meno conosciuti di Marco Ferreri. “Come sono buoni i bianchi”,
diretto da regista nel lontano 98, raccontava infatti di un gruppo di volontari
che, dopo essere giunto in Africa per motivi umanitari, finivatra le fauci degli indigeni che aveva cercato di sfamare. Un contrappasso più o meno simile
accade in “The Green Inferno”, quando gli attivisti di un movimento studentesco
si ritrovano in ostaggio della tribù che avevano cercato di proteggere
dall’avidità delle multinazionali, intenzionate a sterminarli peracquisire le loro terre. Anche in
questo caso c’è di mezzo l’antropofagia, e anche Roth, come Deodato, ce la
mette proprio tutta per rendere il supplizio dei corpi nella maniera più
truculenta che sia possibile. Tra urla strazianti e squartamenti a tutto
schermo, “The Green Inferno” però si mantiene alla larga da qualsiasi tipo di
verosimiglianza e non pensa neanche per un attimo di imitare “Cannibal
Holocaust” che del genere mokumentary fu uno dei precursori. Troppo diverso è il suo tipo di cinema,
fandato sin dal principio sull’alleanza con il pubblico di riferimento,coccolato sino allo stremo pur di
soddisfare la voglia di gran guignol,
che il film, a parte il breve scampolo girato a New York, necessario a creare
il presupposto “politico” che porterà i ragazzi in Amazonia,non si fa di certo mancare.
Quello che ne viene fuori è un divertimento preordinato e
scandito da una via crucis tanto
prevedibile quanto necessaria ad assicurarsi il favore dei seguaci. Più che la paura, fiaccata dagli
eccessi di parossismo, è il disgusto a farla da padrone, continuamente stimolato
dalla visione del martirio a cui i giovani vanno incontro. Il
giudizio sul filmè
inevitabilmente di parte, e nella conta tra favorevoli e contrari a
determinare
il gradimento è il fatto di riconoscersi o meno, nell’estetica formulata
dal
regista. Il quale, forse per attenuare l’eversione del suo messaggio,
forse per
cercare di rendersi più simpatico, si inventa un finale che sembra
volersi prendere beffa di tutto e di tutti. Da questo punto di vista la
lezione di Ferreri sarebbe tornata veramente utile.