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Elephant Song di Charles Binamé Xavier Dolan, Bruce Greenwood, Catherine Keener, Carrie-Ann Moss Canada, 2014 genere, drammatico durata, 110’
Gennaio 1966, in un ospedale psichiatrico canadese inizia un’inchiesta interna con l’interrogatorio del direttore dottor Toby Greene (Bruce Greenwood) e dell’infermiera Susan Peterson (Catherine Keener) su un tragico evento accaduto qualche settimana prima. In continui flashback, viene narrata la seduta durante il giorno di Natale che il dottor Greene ha con un giovane paziente della struttura, Michael Aleen (uno strepitoso Xavier Dolan), ultimo ad aver visto il dottor Lawrence, misteriosamente scomparso il giorno prima senza lasciare traccia. Inizia così un confronto psicologico tra il dottor Greene (che non conosce il paziente in questione) e Michael, per sapere se lui ha informazioni preziose su che fine abbia fatto il dottor Lawrence. Tratto da una pièce teatrale di Nicolas Billlon, autore anche della sceneggiatura, il dramma si svolge nel giro di poco più di novanta minuti con continue interruzioni da eventi esterni, dove nella realtà si scoprirà che Michael è un geniale manipolatore con uno scopo finale ben preciso. Il rapporto tra lui e il suo medico curante Lawrence è ambiguo: Michael è un omossessuale che si è innamorato del suo psichiatra in un classico transfert tra medico e paziente. I dialoghi serrati sono tutti concentrati nei tentativi del dottor Greene di scoprire la verità, mentre Michael gioca a ingannarlo, provocarlo, depistarlo. Michael è figlio di una famosa cantante d’opera con cui ha avuto un rapporto traumatico fin da bambino (non voluto dalla madre perché vissuto come un ostacolo alla sua carriera) e che ha assistito al suo tentativo di suicidio senza intervenire e facendola morire. Ma il trauma più profondo Michael lo ha vissuto con il padre, quand’era ancora bambino, dove durante una battuta di caccia in Africa assiste alla morte di un elefante che lo mette di fronte al dramma della perdita e del dolore emotivo. Due sono i temi portanti di questo thriller psicologico: l’elaborazione del lutto e la conoscenza della verità, continuamente ingannata e manipolata dai personaggi. Se Michael in qualche modo non è mai riuscito a superare la morte della madre e il suo essere rifiutato come figlio, dall’altro scopriamo che anche il dottor Greene ha perso la propria figlia Rachel due anni prima, in un tragico incidente causato dalla moglie, da cui si è separato, e che per gradi il regista rivela essere l’infermiera Peterson. Lei conosce Michael e lui riesce a convincere il dottor Greene a lasciarla fuori dal colloquio. Greene e la Peterson non hanno superato ancora il dolore della perdita della figlia e questo li tiene lontani uno dall’altra e sarà anche la causa del tragico finale di cui è protagonista Michael. Solo nel finale i due si riconcilieranno, nell’ultima inquadratura in campo lungo, seduti su una panchina nel freddo e immersi nella neve (un gelido inverno metafora metafisica e morale di un immobilismo dei sentimenti, della mancanza di calore umano che li ha travolti). Oltretutto l’ospedale è stato investito da uno scandalo da poco su un altro medico che aveva rapporti non corretti con i pazienti e di cui Greene non si è mai avveduto. E qui entra in ballo il secondo tema, forse il più importante e interessante dell’intera opera del regista Charles Binamé, che mette in scena la volatilità di ciò che sembra vero e della manipolazione della verità. Greene crede di avere sotto controllo la situazione, ma nella realtà, letteralmente, non vede e quindi non capisce fino in fondo Michael, ma anche se stesso. Del resto, fin dall’inizio non legge il fascicolo del paziente perché ha dimenticato gli occhiali da vista a casa e si lascia convincere da Michael a scendere a patti con lui per poter conquistarne la fiducia. Greene è costretto poi a rivolgersi alla Peterson, chiedendole in prestito i suoi occhiali per vedere delle foto compromettenti di Michael nudo che il dottor Lawrence tiene chiuse a chiave nel cassetto della scrivania del suo studio e poi leggere un biglietto lasciato dal dottore e consegnato al ragazzo. Questi glielo rivela e lo consegna in due pezzi, prova della reale motivazione della scomparsa di Lawrence e che tragicamente disvelerà una verità altra, diversa da quella che appare all’inizio. Da un iniziale omicidio da parte del paziente del suo amante, per passare all’ipotesi di una fuga del dottore che ha rapporti sessuali con Michael, si arriva alla conferma improvvisa della fuga di Lawrence che risulta molto più semplice e banale. Ma quando Greene lo scoprirà sarà troppo tardi per lui, la Peterson e Michael. Il dottore non capisce perché non riesce a vedere la realtà che ha di fronte, mancando degli strumenti adatti alla comprensione di quello che è successo. Michael dà degli indizi a Greene raccontando di una canzone francese che la madre gli cantava per insegnargli a contare: “Un elephante trompe, deux elephantes trompe…” (da cui il titolo della pellicola) che se da un lato appare uno simbolo inconscio tra la morte dell’elefante, a cui Michael ha assistito da bambino, e la rappresentazione della sua omosessualità (la proboscide dell’animale), dove “trompe” nella realtà non vuol dire “cadere”, ma “ingannare”, “prendere una cantonata”. E Greene non conosce il francese e non capisce che Michael, indirettamente, gli sta confessando l’inganno che ha messo in piedi per portare a termine il suo lucido e folle piano. Il rischio di una simile sceneggiatura, in cui i dialoghi sono determinanti per la drammaturgia, era quello di trasformare il film in una semplice messa in scena di un’opera teatrale con la macchina da presa, trasformando “Elephant Song” in un kammerspiel fuori tempo massimo. Oltretutto, il regista canadese ha una vasta esperienza televisiva e il pericolo era assistere a un prodotto con un linguaggio distante dalle possibilità che il cinema può offrire. Al contrario, Binamé riesce a evitare tutto ciò, innanzitutto montando la storia in un lungo flashback e con brevi flashforward per tornare al presente del racconto; poi, inserendo un incipit dell’infanzia di Michael e altri flashback mentali dei ricordi di Michael della morte della madre e del complesso episodio in Africa, in una myse en abyme che rende profondo e articolato il tessuto narrativo dell’opera, dove i raccordi sono anche dovuti al montaggio sonoro (così il rumore del fan coil dello studio di Lawrence agganciano sempre il ricordo africano di Michael, come fattore scatenante della memoria del giovane paziente). Elementi di grammatica cinematografica di eleganza formale che rendono “Elephant Song” un film di una millimetrica precisione nella scoperta della verità tra le pieghe della realtà. E su tutto dobbiamo citare la grandezza dei tre interpreti che riescono a fornire una prova attoriale di grande misura e intensità. Particolarmente colpisce la nervosa e camaleontica recitazione di Xavier Dolan, enfant prodige del cinema canadesa, già regista affermato nonostante la giovane età e autore di un capolavoro come “Mommy” (premiato al Festival di Cannes come miglior regia nel 2014), che dà un saggio delle doti di attore con vaste sfumature emotive. Inedito in Italia, è meritevole l’operazione della Fondazione Cineteca Italiana di programmare “Elephant Song” presso la sala Alda Merini allo spazio Oberdan di Milano, permettendo ai fortunati spettatori di gustarsi un film che è un piccolo gioiello di messa in scena e di recitazione. E che consigliamo vivamente di non perdere. Antonio Pettierre
“Elephant Song”, Fondazione Cineteca Italiana, Spazio Oberdan, Sala Alda Merini a Milano fino al 24 gennaio 2016 http://oberdan.cinetecamilano.it/eventi/elephant-song-anteprima/
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