Le antiche radici dei problemi dell’Unione Europea

Creato il 07 novembre 2012 da Keynesblog @keynesblog

di Jean-Luc Gaffard e Francesco Saraceno da Il Sole 24 Ore

È difficile non rallegrarsi della decisione presa dalla Bce di acquistare, se necessario, una quantità illimitata di titoli pubblici dei paesi in difficoltà. L’istituto di Francoforte ha assunto la responsabilità, tutta politica, di proteggere dalla speculazione dei Paesi che non avrebbero altrimenti avuto altra scelta che l’abbandono della zona euro, causando l’implosione della moneta unica. Due mesi dopo, i fatti danno ragione a Mario Draghi: con l’eccezione di qualche episodio specifico, il mercato dei titoli sovrani ha smesso di meritare la prima pagina dei giornali europei.

Draghi ha dovuto inserirsi nello spazio lasciato desolatamente vuoto dal potere politico, per evitare che fosse definitivamente occupato dalla speculazione. Quello che preoccupa davvero, nell’annuncio della Bce, è la contropartita domandata ai Paesi che farebbero richiesta dello scudo. Questi dovrebbero non solo mettere in cantiere le riforme strutturali ritenute necessarie dalla troika, ma anche impegnarsi in un ulteriore sforzo di austerità fiscale.

Sarebbe rassicurante poter interpretare l’insistenza di Mario Draghi sulla condizionalità come un realista compromesso politico, volto a strappare il consenso dei Paesi del Nord Europa. In realtà la Bce del presidente italiano si inscrive in una linea di continuità con i suoi predecessori, ed é coerente con le politiche seguite o auspicate dall’unione nel suo complesso fin dagli anni ottanta; politiche influenzate da un’ortodossia macroeconomica che proprio in quegli anni si affermava in risposta alla crisi della teoria keynesiana.

Proviamo a ritracciare questo percorso. Fin dal 1986, l’Atto Unico che organizza e regola il mercato unico viene promulgato senza discussioni sull’armonizzazione fiscale o sociale. Si creano quindi le precondizioni perché si sviluppi una “concorrenza sulle regole” esacerbata in seguito dagli allargamenti e dal conseguente aumento dell’eterogeneità tra i paesi membri. Una guerra economica combattuta da tutti i Paesi europei con alterne fortune.

L’episodio successivo è il trattato di Maastricht, che risponde tra l’altro alla volontà tutta politica di ancorare la Germania appena riunificata alla costruzione europea. La nuova banca centale europea è ispirata dal modello della Bundesbank: indipendenza totale, un mandato strettamente legato alla stabilità dei prezzi, e il divieto di finanziare il deficit di paesi tentati di approfittare della moneta unica per addossare ai partner il costo delle proprie politiche. Insieme ai vincoli imposti su deficit e debito pubblico, e all’enfasi sulle riforme strutturali, questo avrebbe dovuto assicurare la convergenza di economie la cui flessibilità avrebbe consentito di far fronte agli choc asimmetrici.

La crisi ha portato alla luce i vizi strutturali della moneta unica, mostrando anche le difficoltà delle dottrine di politica economica che ne avevano influenzato lo sviluppo. A cosa poteva portare una moneta unica non accompagnata da meccanismi di compensazione federale? Come si poteva immaginare che l’enfasi sul laissez faire non portasse ad una divergenza tra piccoli e grandi paesi, con i primi che meno dipendenti dalla domanda interna erano liberi di puntare sulla concorrenza sociale e fiscale? L’impossibilità di ricorrere al tasso di cambio, e l’assenza di struttura propriamente federale hanno privato gli Stati membri di ogni meccanismo di convergenza macroeconomico. Sembrava ovvio fin dall’inizio che la semplice convergenza delle politiche fiscali non avrebbe potuto compensare le differenze istituzionali, e di organizzazione sociale che erano (e sono) alla base delle divergenze reali.

L’annuncio della Bce si iscrive in questa storia, ormai lunga un quarto di secolo. Non vi è dubbio che l’istituto di Francoforte debba svolgere fino in fondo, come fa ogni altra banca centrale, il proprio ruolo di prestatore d’ultima istanza. Ma per quanto necessario, questo non risolve alla radice la crescente divergenza reale tra le economie europee. Peggio ancora, le condizioni imposte ai Paesi beneficiari finiranno per accrescere le differenze di performance, e nuocere alla crescita della zona nel suo insieme. È rivelatore quanto le condizioni imposte dalla troika assomiglino ai vecchi programmi di aggiustamento strutturale imposti dal Fondo monetario internazionale ai Paesi in via di sviluppo, oggi giustamente screditati. Come non notare il paradosso di un’insistenza quasi fideistica nelle virtù dell’austerità, quando nei circoli accademici e nelle istituzioni stesse che la predicano, come il Fondo monetario internazionale, si accumula evidenza sugli effetti disastrosi delle politiche restrittive? E come non notare la differenza con la Fed americana, che lancia un ulteriore round di quantitative easing per sostenere la crescita senza chiedere contropartite all’aministrazione Obama?

L’Europa sembra ancora una volta incapace di imparare dall’esperienza, propria ed altrui. La Bce ci ha salvato, forse, da un burrone. Ma l’aver evitato il peggio non consente manifestazioni di ottimismo per un continente che, preda dell’ortodossia, sembra condannarsi oggi come ieri a molti anni di stagnazione economica.

Jean-Luc Gaffard e Francesco Saraceno sono docenti presso l’Ofce, centro di ricerca in economia di Sciences-Po a Parigi


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