L’abbigliamento, come elemento culturale, è il segno più evidente dell’identità individuale e collettiva. Le fogge, i tessuti, i colori, distribuiti per condizione economica, età, genere, cittadinanza, costruiscono il linguaggio immediatamente visibile dell’appartenenza e della distanza, nonché delle apparenze.
È un codice della comunicazione sociale che prevede regole di inclusione ed esclusione, oltre che di tendenza, nella quale ci introduce in una rappresentazione caratterizzata da differenze e status sociali. Sin dall’epoca romana le vesti, le tinte, i colori e gli accessori comunicavano condizione personale, posizione sociale (nobili, cavalieri, ceto urbano) e stati d’animo (come le vesti “lugubri” simboli di lutto), occasioni sociali (nozze, funerali, investiture dei cavalieri): parlano dunque della società, ma anche dei singoli soggetti e delle sue relazioni con altri, riferiscono la situazione del mercato ma anche le tecniche lavorative artigianali.
Di pari passo alla sfarzosità dell’abbigliamento vi furono numerose disposizioni e leggi suntuarie per limitare la sfarzosità delle vesti. Tra le prime ritroviamo la Lex Oppia del 215 a.C., ma soltanto nel Medioevo iniziarono a diffondersi in Italia, soprattutto nel Meridione: Carlo I d’Angiò, ad esempio, le utilizzò affinché i suoi sudditi seguissero un comportamento e un decoro esemplare, mentre le disposizioni di Federico III d’Aragona ebbero lo scopo di contenere i lussi e fissare un preciso codice delle apparenze.
In un periodo in cui “l’abito fa il monaco”, per via delle disponibilità economiche, le preoccupazioni dei legislatori e del potere centrale erano quelle di evitare equivoci e indebite ostentazioni di una condizione che non era la propria, e segnare quelle distanze sociali che la disponibilità economica rischiava di annullare.