Le attività umane prosciugano il Pianeta
Il sistema produttivo moderno impone un utilizzo troppo elevato di una risorsa limitata e fondamentale: l’acqua.
Per produrre un chilogrammo di caffè se ne consumano 20 mila litri, per un hamburger 2.400.
Vi siete mai chiesti quanta acqua serve per produrre la maglietta che indossate, l’hamburger che avete appena mangiato, la tazza di tè con cui avete fatto colazione o le scarpe che avete ai piedi? Tenetevi forte, perché le cifre sono impressionanti. Ciascuno di noi, infatti, consuma normalmente acqua per bere, per cucinare, per lavarsi. Ma questa è solo l’acqua che “vediamo”. Mentre ogni prodotto che utilizziamo “contiene” decine, centinaia se non migliaia di litri di “acqua virtuale”. Ovvero quella che ha permesso di ottenere il prodotto finito. Ed è proprio nella fase di “creazione” di ciascun cibo, oggetto o capo d’abbigliamento che si potrebbero risparmiare enormi quantità di acqua. Ovvero di un bene che, dati alla mano, sta diventando sempre più raro nel mondo.
Lasciamo un’impronta
Proprio con l’intento di sensibilizzare sulla necessità di diminuire il consumo di acqua, da anni alcuni esperti hanno cominciato a calcolare “l’impronta idrica”, ovvero il valore dei litri di acqua che viene consumata per produrre un bene, o per garantire i bisogni di una comunità o di una nazione.
«L’interesse – ha spiegato Arjen Y. Hoekstra, professore di Gestione idrica all’Università olandese di Twente e ideatore del concetto di water footprint – è legato al riconoscimento dell’impatto umano sui sistemi idrici in termini di consumi e, conseguentemente, anche di scarsità e di inquinamento». Una questione strettamente legata al nostro modello di sviluppo: «I problemi idrici – prosegue il docente – sono parte integrante della struttura dell’economia globale. Molti Paesi esternalizzano i costi in termini di acqua comprando dall’estero beni molto costosi in termini idrici. Il che genera pressione sulle risorse presenti nelle regioni esportatrici, spesso prive di meccanismi di governance dell’acqua».
Per inquadrare il problema, immaginate di lasciare spalancato il rubinetto della vostra doccia per un giorno intero. Giorno e notte, 24 ore, senza interruzione. Al ritmo medio di 7-8 litri all’ora, avrete sprecato poco più di 9 mila litri: quanto serve per produrre una sola tazza di tè, tra coltivazione, raccolta, lavorazione, imballaggio. Uno studio dello stesso Hoekstra e di A. K. Chapagain (Water footprints of nations, 2006, vedi tabella1) indica tra i prodotti più “idrovori” il caffè (per produrne un kg servono oltre 20 mila litri di acqua), la carne bovina (più di 15 mila litri), il cotone lavorato (oltre 8 mila litri). In termini più semplici da memorizzare, l’impronta idrica di un hamburger da 150 grammi è di 2.400 litri; 8 mila litri servono invece per un paio di scarpe di cuoio e ben 20 mila per una maglietta di cotone (sul sito internet www.waterfootprint.orgè presente un calcolatore).
Le attività umane usano troppa acqua
I due esperti hanno anche stimato l’impronta idrica globale e quella di molte nazioni. La prima è pari a 7.450 miliardi di metri cubi di acqua all’anno (un metro cubo “vale” mille litri). Le seconde variano da quelle dei Paesi che, per abitante, consumano più acqua (in testa gli Usa con 2.480 metri cubi all’anno, seguiti a poca distanza da Italia, Francia e Russia), e quelli invece che ne utilizzano meno, come la Cina che arriva a quota 702 metri cubi annui.
Si tratta di cifre insostenibili per il pianeta Terra. Ad oggi, infatti, globalmente gli esseri umani si appropriano del 54% di tutta l’acqua dolce accessibile. Il rapporto del WWF Impronta idrica - Scenari globali e soluzioni locali sottolinea come la possibilità di aumentare le forniture di acqua abbia «praticamente raggiunto la soglia critica in molte regioni, anche in Europa». Un pericolo enorme, se si considera che gli ecosistemi di acqua dolce, pur ricoprendo solo l’1% della superficie terrestre, ospitano il 7% (126 mila specie) delle 1,8 milioni di specie a oggi descritte, tra cui un quarto dei 60 mila vertebrati noti (secondi i dati dell’International Union for Conservation of Nature).
Nonostante ciò, le attività dell’uomo continuano a utilizzare l’acqua dolce come se fosse inesauribile. In particolare per le colture: in Europa l’attività agricola consuma mediamente il 46% delle risorse idriche, contro il 19% della produzione elettrica, il 18% delle forniture idriche e il 17% dell’industria. In Italia circa il 60% dell’acqua dolce è utilizzato per l’agricoltura, il 25% per l’industria e il 15% per gli usi domestici.
«Il risultato dell’azione umana – prosegue il rapporto del WWF – è che la biodiversità globale negli ecosistemi d’acqua dolce presenta ormai un tasso di estinzione 5 volte superiore a quello delle specie terrestri». Non solo: in Europa, negli ultimi 50-100 anni il 60% delle zone umide è andato perso perché convertito a usi più “redditizi” o perché non tutelato. Se a ciò si aggiunge che, ad oggi, 36 milioni di chilometri quadri sulla Terra sono considerati a rischio desertificazione (un’area pari a quattro volte le dimensioni della Cina) e che la popolazione umana crescerà dagli attuali 7 miliardi di abitanti a 9,3 miliardi nel 2050, la strada che porta ad un drastico ripensamento dei nostri metodi di produzione è evidentemente obbligata.
Le risorse idriche della Terra
L’acqua, è noto, è presente in grande quantità sul pianeta Terra. Mari, laghi, fiumi, oceani, ghiacci ne conservano ben 1,4 miliardi di chilometri cubi. Ma solamente il 2,5% (35 milioni di chilometri cubi) è costituito da acqua dolce. Di questa, inoltre, il 70% è intrappolato sotto forma di neve e ghiaccio perenni nelle regioni montuose e ai due Poli. Sfruttabile dall’uomo, dunque, resta solo lo 0,7% delle risorse idriche totali. E la maggior parte di tale piccola quota è confinata in depositi sotterranei (falde, umidità del suolo, acquitrini, permafrost). L’acqua dolce superficiale presente nei laghi e nei fiumi, dunque, è pari solamente allo 0,3% (105 mila chilometri cubi) del volume totale. Ciò basta a spiegare per quale ragione sia fondamentale un utilizzo parsimonioso di tale risorsa, che costituisce la base della vita animale e vegetale sul Pianeta.
Il caso virtuoso dell'italiana Mutti
Alcune aziende hanno preso coscienza della necessità di gestire in modo consapevole e sostenibile le risorse idriche, e hanno cominciato a modificare a tale scopo la propria produzione. In Italia, il primo gruppo ad aver avviato un processo virtuoso di questo tipo è l’industria alimentare Mutti, che grazie a una partnership con il WWF ha calcolato l’impronta idrica complessiva della sua produzione aziendale. Sono state così prese in considerazione le quantità di acqua immagazzinate in ciascun prodotto (concentrati di pomodoro, salse, passate, polpe), quelle utilizzate nella fase di approvvigionamento (coltivazione del pomodoro e di altri ingredienti), per la lavorazione, per il confezionamento e l’imballaggio. Nonché quelle connesse ad energia e trasporti.
Così, è stato calcolato che per produrre una bottiglia di passata Mutti da 720 grammi (compresi contenitore ed etichetta) ci vogliono 172 litri di acqua, mentre si arriva a 223 litri per un barattolo di polpa da 400 grammi. Un punto di partenza: Mutti ha avviato azioni per ridurre la propria “impronta” lungo tutta la catena produttiva, sensibilizzando anche i fornitori.