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le belve

Creato il 30 ottobre 2012 da Albertogallo

SAVAGES (USA 2012)

le belve

Piccola premessa che potete saltare. Tempo fa un utente di Twitter titolare anche di un blog si lamentò, proprio attraverso Twitter, della traduzione italiana del titolo di Le belve, romanzo di Don Winslow. Il testo del tweet invitava la casa editrice ad andare “a quel paese” per non aver tradotto in modo letterale il titolo originale, Savages. Il bot della suddetta casa editrice (il bot non è un buono fruttifero ma un utente Twitter che fa le veci di un altro) se la prese a male e ritornò sull’argomento in un secondo momento, molto tempo dopo, rinfacciandolo all’utente in questione.
Questa noiosa premessa (che trovate riassunta qui) serve per dire, di fatto, tre cose. La prima è che non si può scrivere un articolo senza nominare Twitter; la seconda è che questa “disavventura” è stata il mio primo approccio a Le belve e ne sono stato memore durante la visione della trasposizione cinematografica di Oliver Stone; la terza è che, visto il film, il titolo originale è di gran lunga più calzante.

Il film è un noir, tratto appunto dal libro di Winslow, dai più considerato come l’erede di James Ellroy e Edward Bunker. Racconta di uno strano triangolo amoroso, molto meno poetico di quello di Jules e Jim ma anche molto più all’antica: una lei di nome Ophelia che si fa chiamare O e due lui, Ben e Chon, piuttosto macho; il ruolo predominante del terzetto spetta ai maschi, con la donna a ricoprire il ruolo di oggetto del desiderio, nell’accezione più ampia e meno maschilista del termine.
Ben e Chon conducono quella che un certo immaginario hollywoodiano ci ha insegnato essere una vita da sogno: una villa a picco sul mare in California, una ragazza che si spupazzano a turno, molti soldi e una bella nuotata nell’oceano di tanto in tanto. Sex, drugs & surf. Uno è un ex marine dei Seals con missioni in Afghanistan e in Iraq nel curriculum, l’altro un benefattore buddhista che reimpiega i soldi guadagnati in iniziative come la costruzione di pozzi e la diffusione di energia pulita e di software liberi nei paesi del Terzo Mondo. Si è detto “molti soldi”: il segreto del successo dei due inseparabili amici è una formidabile coltura di marijuana, frutto dei semi di papavero raccolti in Afghanistan da Chon e della formazione universitaria di Ben. Il confine messicano, però, è pericolosamente vicino, e un sanguinario gruppo di narcotrafficanti ha messo gli occhi sul meraviglioso tesoro dei due bellocci. Per appropriarsene, prima che la California legalizzi tutto, arrivano a rapire il vero e unico amore della vita di Ben e Chon: O(phelia).

C’è una buona dose di suspense, in Le belve: buoni e cattivi si confondono di continuo; c’è un piccolo gruppo di personaggi principali e altri di contorno, ma tutti adeguatamente definiti; c’è violenza – molta, al limite del gore; c’è una trama complessa e a volte senza apparente controllo; ci sono notevoli riferimenti religiosi, nei rapporti tra le persone e nelle scenografie; e c’è anche una velata attrazione omosessuale, tipica di molte coppie maschili del cinema (non a caso vengono tirati in ballo Butch Cassidy e Sundance Kid).
La vicenda è narrata da O, la cui voce fuori campo diventa, a un certo punto del film, superflua e fastidiosa (è un vecchio e dibattuto tema, quello dell’uso della voce fuori campo, di derivazione letteraria), anche perché il personaggio interpretato da Blake Lively, molto superficiale, non si fa voler bene dal pubblico – ammesso che in questo film ci si possa identificare con qualcuno. Va però riconosciuto un merito alla pellicola, un picco di interesse e approfondimento che risiede proprio nell’incontro dei due personaggi femminili: O e Elena, la regina del narcotraffico interpretata da una brava Salma Hayek, hanno modo di confrontarsi nel momento del sequestro della prima. Ophelia ha un non-rapporto con la madre, la seconda uno più o meno simile con la figlia: è inevitabile, ma per niente scontato, che le due donne tendano, una volta avvicinatesi, a identificarsi l’una con l’altra, a cercare reciprocamente una la figlia l’altra la madre. Forse il rapporto tra O e la sua vera madre è uno di quei particolari che rendono il libro interessante e che nel film, per varie ragioni, passa sottotraccia.

Detto a grandi linee della sceneggiatura, due parole vanno spese per il cast, partendo proprio da Blake Lively e Salma Hayek. La prima non è del tutto convincente: O è bella, giovane, abbronzata, superficiale e bionda, ama la vita e in molte occasioni del film ubbidisce allo stereotipo dell’oca. Sembrerebbe che l’attrice abbia il personaggio sotto controllo, ma nella parte in cui vive da sequestrata, quella in cui avrebbe potuto mostrare il suo côté drammatico, la Lively non regge il confronto con gli attori che ha a fianco. Salma Hayek, invece, andrebbe inserita nella cinquina delle nomination come migliore attrice per i prossimi Oscar: al di là dell’avvenenza, questa Reyna risulta molto umana, pur essendo un potentissimo boss del narcotraffico. I suoi sguardi sembrano andare sempre ad altre preoccupazioni, poste al di là di quelle contingenti al suo ruolo, sembrano aprire squarci su drammi interiori profondissimi, legati a quella figlia con la quale non c’è più un rapporto, alla sua vita, al suo bilancio esistenziale. Il fallimento della sua impresa è un fallimento umano, e se c’è un personaggio per il quale si fa il tifo forse è proprio lei.
Spiace vedere invece due attori del tutto insignificanti nella parte dei protagonisti: Aaron Taylor-Johnson (il buddhista/filantropo/rasta Ben) e Taylor Kitsch (il muscoloso ex marine Chon) sono due facce che si dimenticano in fretta, troppo simili ad altri attori più famosi e con poco carisma (forse un po’ meglio Kitsch, che però sembra un Tom Hardy a metà prezzo). Di altro tono, invece, le facce dei due caratteristi, indispensabili per l’economia narrativa e figurativa del noir. John Travolta, il poliziotto Dennis, è invecchiato male, e qui si nota parecchio: recita con poca verve e molto understatement, ma è la sua ironia a risollevare un’interpretazione non delle migliori. E poi c’è Benicio Del Toro, in un ruolo che più laido non si può: baffo improponibile, pancetta evidente, movimenti lenti e stanchi, il solito occhio folle pronto a esplodere, un rapporto morboso con il cellulare. Un personaggio al massimo della sgradevolezza e dell’epicamente ridicolo.

E infine c’è il vero divo di tutto il film, il regista, che non brilla per virtuosismi e cade nella trappola di citare Sergio Leone. Ma in fondo lo perdoniamo: di fatto Le belve rappresenta il ritorno di Oliver Stone dopo la parentesi quasi obbligata di Wall Street – Il denaro non dorme mai. Si tratta però di un film che sembra lontano dalle corde del regista, sempre pronto a raccontare l’attualità con un punto di vista tagliente e preciso, sebbene tendente al paranoico. Stone è andato in Palestina a intervistare Yasser Arafat, ha girato un documentario su Fidel Castro, ha costruito mille teorie sull’uccisione di JFK ed è stato tra i primi a raccontare Nixon, l’11 settembre e Bush jr. Nelle sceneggiature che ha scritto per altri ha affrontato le condizioni degli esuli cubani dei primi anni Ottanta (Scarface), le carceri turche (Fuga di mezzanotte) e la capillarità dell’”invasione” cinese (L’anno del Dragone). In che modo, allora, una normale storia di narcotraffico e violenza può rientrare nelle corde di questo regista? Più che i vari riferimenti all’attualità presenti nella storia (code di immigrati alla frontiera di Tijuana, i difficili rapporti Usa-narcotraffico e narcotraffico-politica, la legalizzazione delle droghe leggere, i flussi di denaro facile ecc.) il discorso politico che premeva di più a Stone sta forse nel ritratto del trio di protagonisti, che rappresentano quasi un’idealizzazione dell’America di fine anni Zero: rapporti difficili con la generazione precedente (tema che Stone ha già affrontato in W.); un’iniziativa economica personale orientata verso nobili scopi ma supportata da un alto capitale e protetta dalle armi; una globalizzazione buona, quasi applicazione reale delle idee degli hippie ma in perenne simbiosi con una guerra di sottofondo, interiore, pronta a esplodere lontana dai teatri che furono (Iraq e Afghanistan, appunto); un ritorno alla natura e a una condizione primitiva che sono fatti del tutto privati.

Marcello Ferrara



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