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Le canzoni a ballo di Savonarola

Creato il 04 ottobre 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
Girolamo.Savonaroladi Giuseppe Leuzzi. Savonarola fu anche poeta, di canzoni in musica. Il brogliaccio noto come Codice Borromeo contiene, con alcuni componimenti altrui e le letture, riflessioni e profezie da usare nelle prediche, anche quattordici componimenti suoi: sei canzoni, tre sonetti e cinque laudi. Una produzione esile, e non originale, su cui Giona Tuccini, professore di italiano all’università di Cape Town, erige un piccolo monument critic – accompagnandolo da un’ampia cronologia della vita.

Non è una novità, Savonarola ci è abituato. Ponderose analisi ha avuto da studiosi anche molto laici, da Pasquale Villari fino a, cinque anni fa, Franco Cordero. Tuccini fa un’altra cosa: non lo guarda dall’esterno – la storia, il contesto – ma dall’interno, come la persona si è evoluta, dalla giovinezza ferrarese e bolognese al rogo fiorentino, al “martirio”, e dall’interno dei suoi scritti. Lo lega a Tommaso d’Aquino, quindi all’ortodossia, e alla tradizione mistica, di cui il frate era imbevuto – “la precoce intenzione di entrare negli annali della chiesa quale profeta e capopopolo” Tuccini dice “divorante”. Ne mette in risalto la formazione petrarchesca, con calchi numerosi – anche se di Petrarca fece bruciare in piazza a Firenze i libri, insieme con quelli di Dante, e col “Decameron” e il “Morgante”. Annotandone, delle laudi in cantabile settenari, il sicuro influsso delle canzoni a ballo fiorite a Firenze intorno al Magnifico e al Poliziano. Nonché uno o due calchi da Jacopone e Feo Belcari.

Sulle orme verosimilmente di Dionisotti, altro illustre espatriato delle lettere, Tuccini fa di Savovarola un poeta “settentrionale”. Era visto a Firenze ancora nel 1496, alla vigilia della caduta, come “il Socrate ferrarese”, ricorda. E conclude: “Le rime di Girolamo costituiscono una delle testimonianze più alte e creative della poesia tardo-quattrocentesca di area settentrionale (non fiorentina)”. Ma di questo non si vede come – a meno di non ridurre la poesia di area settentrionale a calchi di fiorentini.

Lo spiritaccio del domenicano è sempre caustico, ma su linee pietistiche, della colpa e dell’impossibile redenzione. Da subito, quando a vent’anni decise di farsi frate. “Pieno di “insistenti rintocchi obituari” lo dice lo stesso curatore, specialista in proprio di letteratura religiosa (Medio Evo, Bernardino da Siena, il Rinascimento cristiano, la cultura spirituale primo-novecentesca). Su linee misticheggianti: “I leitmotiv della croce e dell’amore sponsale sono alla base del misticismo occidentale combinati sinergicamente ai temi del nulla umano (in cui Dio si incarna, divinizzando il soggetto), della tenebra divina (la noche oscura di sangiovannea fattura)”.

Il primo componimento intitola “De ruina mundi”. Ad esso fa seguire due anni dopo un “De Ruina Ecclesiae”. Contemporaneamente redigeva in latino un trattatello “De Contemptu Mjundi”, il suo rifiuto del mondo. Ma non senza ambizioni: il fondo delle sue riflessioni è, nelle parole di Tuccini, “la mistica dell’infinita finitudine”, l’indiamento. Da ultimo nel martirio: il martirio è il magnum argumentum del dialogo “De veritate prophetica”, 1497 (“solo così Dio può fare di un peccatore un santo”), ed echi se ne trovano nelle laudi. Il rogo verrà poco dopo, in piazza della Signoria, il 23 maggio 1498. Un percorso che sembra lineare, sebbene abnorme.

Un’edizione con un curioso contrappunto. L’animosità, in tralice, rilevabile dalla note, di Franco Cordero, che a Savonarola dedica ben quattro volume, contro la prodosia e la prosa del frate: “Pastiche coniugal-genetico” dice del brevissimo Salve Regina intitolato “Ad Virginem” – “brutti versi che non meritavano tanto impegno calligrafico”. O “sfrenatamente mariolatrico, sebbene maculista”. Vendetta di filologo? Arroganza di interprete?

Girolamo Savonarola, Rime, il melangolo, pp. 263 € 12


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