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Le cifre di un fallimento

Creato il 14 giugno 2011 da Fugadeitalenti

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La Banca d’Italia mette nero su bianco il fallimento delle politiche giovanili in Italia. Con un intervento assai lucido, all’ultima assise dei Giovani Imprenditori di Confindustria, il direttore generale Fabrizio Saccomanni ha riepilogato il naufragio della nave Italia, in termini di salari, tassi di occupazione, tipologia dei contratti, ammortizzatori sociali, valorizzazione dei laureati e cultura di “impresa giovane”. Un quadro impietoso, che pone in modo altrettanto impietoso l’interrogativo… ha ancora senso restare in un Paese fallito?

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I PASSAGGI FONDAMENTALI DELL’INTERVENTO DI FABRIZIO SACCOMANNI:

-In termini reali, i salari di ingresso dei giovani sul mercato del lavoro sono fermi da oltre un decennio al di sotto dei livelli degli anni Ottanta, senza che nel frattempo siano migliorati gli itinerari retributivi nel corso della carriera lavorativa.

-“In seguito alla crisi – dice Saccomanni – tra il 2008 e il 2010 l’occupazione in Italia è diminuita del 2,2 per cento; più che in Francia e in Germania, dove la flessione è stata pari, rispettivamente, allo 0,8 e allo 0,4 per cento. Le differenze si accentuano con riferimento alla sola occupazione giovanile. Nella fascia di età tra i 15 e i 29 anni la riduzione è stata in Italia del 13,2 per cento, assai più pronunciata che in Francia (-2,7) e in Germania (-3,1 per cento).

-Nella fascia di età tra i 15 e i 29 anni il tasso di disoccupazione nel 2010 è stato del 20,2 per cento , quasi 4 punti in più della media europea, 11 punti in più che in Germania. Solo il 35 per cento di coloro che si trovavano nella fascia di età tra i 15 e i 29 anni risultava occupato: erano poco meno della metà nell’Unione Europea, il 57 per cento in Germania.

-Poco più di un quinto dei giovani occupati con lavoro dipendente tra i 15 e i 34 anni hanno contratti a termine, più che negli altri paesi europei, con l’eccezione della Spagna.

-Anche i percorsi di carriera e i salari dei giovani lavoratori autonomi – pari nel 2010 a circa il 20 per cento dei giovani occupati – si caratterizzano per una elevata incertezza: in molti casi si tratta di rapporti indistinguibili nelle mansioni da quelli di lavoro dipendente. Con la diffusione dei contratti atipici si è sostenuta l’occupazione, ma al costo di rendere il mercato del lavoro sempre più dualistico; accanto a una fascia di lavoratori tutelati, per lo più anziani, è sorta un’ampia area di lavoratori precari, per lo più giovani. Oggi un giovane che si affacci per la prima volta sul mercato del lavoro in Italia ha il 55 per cento di probabilità di vedersi offrire soltanto un lavoro in qualche modo precario.

-Sebbene l’estensione degli ammortizzatori sociali abbia significativamente contribuito a limitare gli effetti della crisi sull’occupazione e sui redditi, l’assenza di un sistema universale di protezione sociale ha penalizzato molti giovani, che sono più esposti alla perdita del lavoro e che hanno meno requisiti per accedere agli strumenti di welfare disponibili.

-La percentuale di laureati nella fascia di età tra i 30 e i 34 anni è del 19 per cento in Italia contro il 32 della media europea. Lo scarto è solo parzialmente riconducibile a fattori di domanda, ovvero alla minore dimensione delle imprese e alla specializzazione settoriale tradizionale, che incidono negativamente sulla propensione ad assumere lavoratori con elevati livelli di istruzione. Alcune recenti analisi empiriche mostrano che un miglioramento qualitativo dell’offerta di lavoro influenzerebbe la produttività delle imprese: un aumento del 10 per cento della quota dei lavoratori laureati porterebbe a un aumento della produttività totale dei fattori dello 0,7 per cento.

-Nel 2009 quasi il quaranta per cento dei trentenni convivevano con i genitori; erano il 16 per cento agli inizi degli anni Ottanta. Le difficoltà nel raggiungimento della piena indipendenza economica perpetuano l’ineguaglianza delle condizioni iniziali, rafforzano la bassa mobilità sociale che caratterizza il nostro paese, frenano le aspirazioni delle nuove generazioni, ne riducono il contributo allo sviluppo.

-Gli imprenditori a capo di imprese che hanno almeno 3 anni e mezzo di vita sono meno giovani che negli altri paesi; solo il 2 per cento si colloca nella classe di età tra i 18 e i 24 anni. In Italia le imprese appena nate mostrano prospettive di crescita più basse, ancora minori se il proprietario ne è anche il manager.

Secondo i risultati di un’indagine campionaria su imprese manifatturiere con almeno dieci addetti il management delle imprese italiane è relativamente anziano: oltre la metà dei dirigenti ha più di 55 anni; è il 40 per cento circa nella media europea. Quelli giovani sono pochi; in quattro casi su cinque appartengono alla famiglia proprietaria. È perciò meno diffusa in Italia quell’attitudine alla capacità innovativa che caratterizza in genere i giovani imprenditori.

-Le imprese italiane a proprietà familiare sono oltre l’80 per cento del totale, sostanzialmente come negli altri principali paesi europei. Le cose cambiano se consideriamo, anziché la proprietà, la gestione. In due terzi delle imprese familiari italiane, l’alta direzione è espressione diretta della famiglia proprietaria; è un terzo in Spagna, un quarto in Francia e in Germania, un decimo nel Regno Unito. In queste imprese la scarsa propensione a reperire risorse manageriali sul mercato, anche quando difettino all’interno della famiglia, può incidere negativamente sulla gestione dell’impresa e sulla disponibilità a intraprendere progetti ad alto rischio e rendimento.

-Nel nostro paese affermarsi come imprenditori dipende molto anche da meccanismi relazionali, in primo luogo familiari. Le prospettive di un giovane imprenditore sono inoltre limitate da un sistema finanziario ancora troppo incentrato sull’attività bancaria tradizionale. Un maggiore sviluppo degli intermediari finanziari specializzati nell’investimento in capitale di rischio aumenterebbe le possibilità di finanziamento delle attività ad alto contenuto innovativo, favorirebbe il consolidamento patrimoniale delle imprese, fondamentale per una loro crescita dimensionale.

—> Vanno creati i presupposti per favorire la nascita di nuove aziende e per far crescere quelle esistenti, superando ove occorra una visione restrittiva della gestione familiare. Non è compito facile, perché riguarda la stessa cultura imprenditoriale del nostro paese. Si creerebbero le condizioni per consolidare la fiducia delle imprese, stimolare la capacità innovativa degli imprenditori, favorire il contributo dei giovani alla crescita dell’economia.

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