A volte sembra davvero assurdo dover riempire un foglio bianco di parole adatte a descrivere un grande libro. Vorrei scrivere semplicemente un aggettivo. Punto. Eppure sono qui, di fronte al monitor del mio computer con i polpastrelli sulla tastiera.
L’ho letto in tre giorni, sbagliando. Mi sono accorta, infatti, che un’opera di Calvino come questa richiede più rispetto, più silenzio, più sguardi da rivolgere alla finestra. A volte la frenesia di finire in tempo rovina il sapore della bellezza. Ma qualcosa dovrò pur dire.
Il genio di quest’uomo è totalmente fuori dal comune e, come si sa, il vero genio e anche il miglior folle, e così è: Marco Polo e Kublai Khan si incontrano all’inizio e alla fine di ogni capitolo (per 9 capitoli), per discutere dell’impero del secondo, attraverso gli occhi del primo che, più che produrre parole, traccia ricordi. In ogni capitolo si visita una città dal nome di donna, che può nascondere al suo interno un’altra città, il regno dei morti, la chiave per aprire le porte del passato o semplicemente la risposta alla propria domanda. Ogni città è un messaggio, una metafora ma soprattutto la straordinaria realizzazione di una sensazione umana. E tu sei lì che leggi, consapevole della grandezza dell’opera che hai fra le mani, poggiata sulle tue gambe e non sai come comportarti. Sei atterrito e meravigliato; ma sai dove rifugiarti, torni al cospetto di Kublai Khan, con Marco Polo, a sfidare l’imperatore raccontando di mondi che esistono solo nella tua mente.
Glenda Gurrado
Italo Calvino, Le città invisibili, Oscar Mondadori, 160 pp., euro 9