Dopo l’ennesima tragedia nelle acque del Mediterraneo si ritorna a invocare l’aiuto da parte dell’Europa. L’operazione mare nostrum era riuscita ad arginare il fenomeno delle stragi in mare, mentre l’operazione Triton non sembra ottenere gli stessi effetti, pur essendo un’operazione congiunta e non più solo italiana.
Tralasciamo volutamente le speculazioni politiche, visto che spesso esse non hanno una solida base operativa e pertanto lasciano il tempo che trovano. Ci preme più che altro analizzare cosa possa voler dire affrontare il problema immigrazione in una prospettiva europea.
Partiamo dall’aspetto normativo. L’Europa contiene già le norme che prevedono una dimensione paritaria e cooperativa della gestione dei flussi migratori. In base all’art. 67, par. 2, del Testo Unico sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) l’Unione sviluppa una politica comune in materia di frontiere, visti, immigrazione e asilo, in particolare, la stessa disposizione, qualifica la politica come fondata sulla solidarietà tra gli Stati membri. Secondo il Trattato di Lisbona (che di fatto ha istituito Trattato sul funzionamento dell'Unione europea), le politiche d'immigrazione sono regolate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario. Ancora lo stesso Trattato, in caso di un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi in uno Stato membro, prevede disposizioni per l'adozione di misure straordinarie volte ad aiutare lo Stato membro interessato (articolo 78, paragrafo 3, del TFUE).
Allo stesso tempo rispetto alle competenza effettive dei singoli stati sulla gestione, ad esempio delle richieste di asilo, all’atto pratico alcune norme contrastano con il principio alla base degli articoli citati del TFUE. Ad esempio il Trattato Dublino disciplina i criteri e meccanismi per individuare lo Stato competente per l'esame di una domanda di protezione internazionale, che coincide con il primo paese con cui il richiedente entra in contatto e dove dunque viene identificato. Chi ottiene la protezione internazionale, inoltre, non ha poi la possibilità di lavorare regolarmente in un altro Stato UE (gli è permesso soggiornare solo per un periodo di tre mesi), pertanto lo Stato competente ad esaminare la domanda sarà quello in cui il richiedente dovrà rimanere una volta ottenuta la protezione.
Riformare ad esempio questo sistema, prevedendo un’equa distribuzione delle richieste tenendo conto ad esempio delle prospettive di integrazione e degli standard di accoglienza, dell’incidenza sulla popolazione residente, di eventuali accordi bilaterali con i Paesi di origine, garantirebbe davvero una distribuzione equa tra gli Stati, oltre che una base su cui impostare progetti di accoglienza effettivi.
Prevedere inoltre banche dati integrate tra gli Stati, non solo l’Eurodac che ha informazioni basilari relative alla prima identificazione, ma un sistema che permetta in tempo reale di conoscere numeri e processi di integrazione, magari non sarà in grado di risolvere il problema nell’immediato ma riuscirà probabilmente a fornire una base su cui pianificare le politiche di accoglienza, senza che il fenomeno migratorio venga gestito in una logica emergenziale.
Ad una politica europea dovrebbe però affiancarsi una maggiore incidenza a livello di politiche estere volte ad arginare il fenomeno degli sbarchi massivi che non può certo fermarsi ai respingimenti e al blocco navale proposti da alcuni politici a modi slogan. Anche questi interventi, per quanto discutibili, non scoraggerebbero gente disperata e disposta a tutto pur di attraversare il mediterraneo alla ricerca di un futuro che probabilmente nei loro paesi di origine non hanno.
Interventi seri e in grado di incidere radicalmente sul fenomeno migratorio coinvolgono inevitabilmente la responsabilità degli organismi internazionali. L’Italia e l’Europa possono prestare soccorso e cooperare per l’integrazione dei migranti, ma per risolvere il problema alla radice, senza che i numeri troppo alti vanifichino qualsiasi buon tentativo di integrazione, è necessario che il fenomeno migratorio non sia gestito solo ed esclusivamente sul territorio Europeo.
Alessia Gervasi