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Le confessioni di un agente segreto

Creato il 16 agosto 2011 da Gianga87

L’articolo che oggi leggerete, è stato scritto dal giornalista Carlo Bonini di Panorama, il settimanale del gruppo Mondadori. Si tratta di un’inter ad un’agente segreto italiano, infiltrato nei gruppi armati. è un’intervista veramente interessante, l’agente segreto descrive in maniera minuziosa, tutte le operazioni più importanti fatte nei fronti caldi (ad esempio in Palestina) e con grande caparbietà, smonta pezzo per pezzo, tutti i luoghi comuni sui combattenti. So che ad alcuni questa cosa non piacerà. Mi rendo conto che potrei venire bersagliato da critiche, magari anche tacciato di essere al soldo degli americani (ma io sono forse uno dei pochi che si è sempre opposto alla pena capitale, proponendo metodi di condanna diversi, nei forum. Ad esempio, nel forum ufficiale di Forza Nuova, l’organizzazione politica fondata da Roberto Fiore, fuii uno dei pochi a scrivere che come alternativa alla pena capitale, si poteva istituire una giuria popolare. Non fuii l’unico a dirlo in quello spazio, sia chiaro) ma mi sembra giusto che la gente sappia come stanno le cose. Che si sappia cioè, come funziona veramente senza essere faziosi, il mondo dei combattenti, che ci si chieda per un attimo: chi sono? Cosa pensano?  Cosa vogliono? Ma soprattutto: chi ce li manda a morire in questa maniera? A tutte queste domande, risponderà il giornalista spagnolo Antonio Salas, intervistato dal giornalista de Il venerdì di Repubblica, Marco Cicala. Il quadro che ne esce fuori è sconfortante, farebbe passare la voglia di fare una rivoluzione anche al più giusto dei rivoluzionari. Non lo faccio perché penso che gli americani siano i migliori al mondo (gli USA sono uno degli stati dove si fa ancora uso, sebbene limitato, della pena capitale) lo faccio solo per dimostrare che a volte Stare con i piedi per terra è la cosa migliore. Che non serve volare con la fantasia ed aspirare a cose impossibili. Sia chiaro: tutti hanno diritto di sognare. Sognare fa bene, apre la mente, aiuta a distendersi e dà un senso alla vita. Quindi è giusto sognare. Ma quando il sogno diventa incubo, quando cioè ci si sente plagiati e si vorrebbe reagire a questo plagio, l’unico modo è parlare. E la testimonianza di questa persona, mi sembra la maniera migliore per riflettere. Buona lettura.

Madrid.

“Sul tavolo il corano, una Kefiah,  un Tespik- il rosario musulmano. Sul volto un mefisto nero. Chiamatelo pure Antonio Salas. Tanto è un nome di comodo. Fa il giornalista Zelig. Si camaleontizza negli ambienti più off limits, è stato naziskin fra le teste rasate, poi prosseneta tra gli spacciatori di carne da sesso- Oggi sa maneggiare una bomba, smontare e rimontare un Kalashnikov, far abbaiare una mitraglietta Uzi L’hà imparato nel Venezuela di Chavez, In campi d’addestramento destinati ai tirocinanti della lotta armata, Stagisti di ogni dove: Latinoamerica, paesi basci, molto Medio Oriente. Nella galassia del radicalismo (non solo) islamico Salas ha bazzicato per sei anni. Registrando tutto con videocamera nascosta o su taccuino. Né è venuto fuori L’infiltrato (Newton Compton, pp 604, euro 9,90 traduzione di Fabio Bernabei), fluviale libro-inchiesta, diario di un jihadista internazionale a zonzo nella rete globale dell’integralismo militante. Palestina, Libano,, Siria. Egitto, Marocco, Tunisia, Venezuela… per imbucarsi ne millieu, Antonio s’è convertito alla religione del profeta, ha imparato l’arabo, è arrivato persino a circoncidersi (negli hammam correva il rischio di venir smascherato). Per sei anni è stato Muhammad Abdallah Abu Aiman, figlio della diaspora palestinese nato in Sud America e mujahid (ovvero agente ndc) per vendetta: una giovane moglie ammazzata dagli israeliani in un borgo cisgiordano (“avevo verificato: nel 2004 una ragazza era stata effettivamente colpita a morte nel villaggio di Burkin”). Col finto pedigree, Salas ha serpeggiato tra Hamas, Hezbollah e Al Fatah… è diventato addirittura webmaster, sorta di segretario internettiano dell’ineffabile Carlos, l’ex Fantomas dell’eversione internazionale. Attraverso la feritoia del passamontagna il reporter racconta: ” quando Carlos negli anni settanta si candidò come sicario per la vausa palestinese, quelli gli misero in mano una pistola: “ok facci vedere. Vai e uccidi”. Durante l’inchiesta temevo anch’io di venir sottoposto ad un test del genere”. Va bene l’immedesimazione, ma fino alla prova del fuoco Antonio Salas non si sarebbe spinto. Le armi si è limitato ad usarle come attrezzi da palestra mantenendosi nell’apparato legale della lotta, lavorando come giornalista negli house organ della propaganda: bolettini, siti web. Il suo libro non acciuffa scoop ma svela psicologie, moventi, accecamenti. Soprattutto sgretola cliché. Se gli chiedi qual è stata la scoperta più significativa in sei anni di infiltrazione, ti racconta di quando incontrò a Betlemme Aiman Abu Aita, già leader delle Brigate dei martiri di al- Aqsa: “alla fine della conversazione gli propongo: “si va in moschea?” E lui: “macché, guarda che io sono cristiano”.

Etichette?

Ognuno le sue. Allo stesso modo, senti ripetere che tutti gli occidentali sono cristiani, non si lavano e hanno un clero pedofilo.

Ha detto di essersi lanciato nel reportage per capire chi sono gli estremisti, perché lo fanno, cosa provano o temono. Ecco, cosa ha scoperto?

Soprattutto del rimoerso dopo aver ucciso. Ma per disinnescarlo esisye un rodato dispositivo di trainining psicologico Un’ideologia della giustificazione che non ‘è poi tanto diversa da quella di certa lotta armata degli anni settanta. Ancora oggi uno come Carlos legittima le stragi dicendo che chi mette una bomba per strada, non deve preoccuparsi del rischio di ammazzare operai o magari elettori di sinistra. Perché chiunque voti o paghi le tasse sostiene le democrazie borghesi. Nelle file del nemico nessuno è innocente”

Carlos è un pensionato della rivoluzione?

è anche il personaggio più interessante che abbia conosciuto.

Mentre quelli in attività?

Non ho incontrato figure affascinanti, da Spy story. Il fanatico è un’idealista stravolto, oppure un pazzo. Perché sa che la sua storia prevede solo due finali: il carcere o la morte. Si credono eroi: sono soltanto burattini manovrati da ideologi o sfruttati dai politici. Dogni colore.

In questo passaggio l’uccisione di Bin Laden ha cambiato qualcosa?

è presto per dirlo. La speranza è che dissuada gli aspiranti seguaci dal ricalcare le sue tracce. Ma l’umiliazione potrebbe anche inasprire i sentimenti di vendetta.

Ha frequentato moschee di mezzo mondo. Spesso sono presentate come vivai dell’estremismo. Quanto c’è di vero?

Poco. Però nel reclutamento degli imam c’è tropo laissez-faire. Dato che anche lì la crisi delle vocazioni è forte, si tende ad ingaggiare chicchessia. Persino a me è stato proposto di diventare imam.

Nel libro racconta che il casting del terrorismo è selettivo. Ma talvolta, in chi non passa gli esami la rabbia raddoppia. Così ci si improvvisa martiri fai da te.

Sono i cosiddetti spree terrorist: si gettano all’assalto armati d’una bombola di gas, un martello o un coltello da cucina. Non sono molti. Ma aumentano a seconda del grado di islamofobia che li circonda.

Quando portava la barba lunga, anche lei non aveva vita facile in occidente.

Se entri in una banca o sali su un aereo i controlli scattano quasi automatici, infiniti. E comunque ti senti addosso gli occhi di tutti. La pulsione estremistica matura anche in questo clima di diffidenza, ostilità. Per il resto, i giovani che scelgono la violenza vengono su con un immaginario che è spesso quello occidentale, ma mutato di segno.

Vale a dire?

Prenda Juba, il cecchino di Baghdad, massacratore di marines. è stato mitizzato come un Rambo iracheno.

Come Mujahid, lei non si è formato guardando film, ma nei campi in Venezuela. Il paese di Chavez è il kinder garten dell’estremismo?

Negli ultimi tempi Cracas ha fatto molto per dissipare quest’immagine, che ritiene fabbricata dai suoi nemici, Stati Uniti in testa. Non si può parlare di appoggio effettivo, logistico e finanziario, ai gruppi armati. Ciò detto, il Venezuela è da decenni terra di formazione guerrigliera: FARC, ELN Messicano, ETA basca,. Tra i miei istruttori c’erano ufficiali dell’esercito: facevano per così dire, il doppio lavoro.

E Chavez chiude un occhio

è un’uomo molto intelligente, uno stratega. Quando, nel 2006, Israele ha attaccato Beirut, è stato il primo a richiamare l’ambasciatore da Tel  Aviv. Nei paesi arabi è un’icona. Quasi come il Che.

Malgrado tutto, non si sarà sentito lusingato dal suo reportage.

So che l’hà letto. In un servizio televisivo ho visto che ne aveva una copia sulla scrivania. Il segnalibro era a metà.

Ha detto che da infiltrato si è sentito come “un nero che va alla riunione del Ku Klux Klan nascosto sotto il cappuccio”. Il travestimento non ha mai traballato?

Tra gli Hezbollah libanesi o nei campi scuola venezuelani ho rischiato più volte di farmi pizzicare. Ma paradossalmente, chi stava per smascherarmi era un giornalista. A Caracas ho incontrato il famoso reporte statunitense John Lee Anderson, uno che di medio oriente sa tutto. Appena gli ho detto che avevo legami e anche una moglie morta in un villaggio sperduto della Palestina chiamato Burkin, ha esclamato: “lo conosco benissimo!”Ho fatto i salti mortali per cambiar discorso.

Per sei anni lei ha filamto di nascosto, per non dimenticare nulla si lasciava messaggi sulla segreteria telefonica, prendeva appunti sulle mani o sulla carta igienica dei cessi, eppure dice che mimetizzarsi tra gli islamici è stato meno logorante che immergersi nel mondo della prostituzione internazionale.

Sì tra i magnaccia ho rischiato di perdere il controllo. Una volta, a Madrid,ero a pranzo con un trafficante messicano. Mi diceva: “vuoi un ragazzina di dieci anni? Ne ho una del Chapas. Costa 25 mila dollari. Io giocherellavo sul tavolo col coltello, e riflettevo sui pro o i contro dekki sgozzare quell’uomo.

Ma non c’è invece il rischio di calarsi eccessivamente nella parte?

Sì, la chiamano la malattia dell’infiltrato. Quando ti identifichi troppo nel ruolo e ci resti imprigionato. Per questo un poliziotto sotto copertura opera sempre assieme a un collega-ombra con cui confidarsi, un angelo custode che lo tiene nella realtà. Io devo fare assegnamento solo su me stesso per controllare eventuali deliri.

Tipo il succo di carote?

Aiuta a scurire la pelle: ne ho bevute autobotti. Alla fine ero più abbronzato dei palestinesi. Ancora adesso, al supermercato, vado istintivamente a comprarne.

Vive sotto protezione?

Qui sì. Ma appena mi sposto all’estero finisce.

Ha seguito il caso Saviano?

Gomorra è un gran libro. Qualche volta sono tentato di togliermi il passamontagna e andare anch’io a parlare nelle scuole. Però se lo facessi avrei finito di lavorare.

Infiltrarsi è lavoro usurante. Mai pensato di cambiare?

Finche posso conservare l’anonimato continuo. Faccio il free-lance, vivo di queste inchieste e con i libri me ne finanzio altre.

Non ci sono troppi giornalisti zelig?

“Spesso camuffarsi degenera in sensazionalismo, ma se si fanno reportage seri non c’è pericolo di saturazione.”

Oggi questo signore è convertito all’islam, ma certo, la sua esperienza non dissipa affatto i dubbi su cosa sia veramente l’islam moderato, anzi induce a credere che l’islam è ancora imperfetto e ha ancora molta strada davanti a sé (specie il corano e la sunna) per essere revisionato.


 



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