LE CONFESSIONI DI UN…… GLG, 19 gennaio ‘15
Io sono stato comunista e marxista e non me ne vergogno minimamente, pur se ora non posso più considerarmi tale. Sul comunismo mi sono espresso più volte e lo farò ancora. Per il momento dico solo che il comunismo, cui avevo aderito, nulla aveva a che vedere né con la “voglia di prendere il posto dei padroni” (quanti erano così, soprattutto nei ceti più popolari) né contro quel misto di populismo, spirito caritatevole (spesso ipocrita a più non posso), di fratellanza e pena per i diseredati, gli oppressi (magari solo presunti da menti limitate e ottuse), che caratterizza i comunisti – quasi tutti di ceto medio e benestante o quasi – dell’odierna misera e lacrimevole pattuglia, ormai molto scarsa per fortuna, ancora esistente nella nostra società “occidentale”. Per inciso, dico che sono sempre stato non credente, ma mai ateo (un’altra credenza da me sempre ritenuta assai limitata e povera di contenuto). L’ateismo “militante” mi sembra un po’ ridicolo; che la scienza avrebbe cacciato le “tenebre” religiose mi è sempre apparsa una specie di utopia (spesso contraddetta alla fine della propria vita, quando si fa alta la “strizza”).
Non ho mai avuto simpatie sessantottarde, anche se appartengo ad una generazione che ha dovuto vivere la totale involuzione del Pci. L’ho compresa non subito e per intero; abbastanza presto, però, mi sono accorto della sua involuzione atlantica e di chi fosse Berlinguer (ho provato la giusta pietà quando fu colpito da ictus, ma non l’ho mai apprezzato in quanto mi è sembrato un sostanziale voltagabbana, pur se di una certa intelligenza). E’ quindi logico che fossi costretto a parlare solo a mezza bocca contro i sessantottini. Anche se ho sempre apertamente odiato quelli del tipo “Easy rider”, che vidi con sollievo volare, alla fine del film, dalla motocicletta colpiti a morte da autentici bastardi e ottusi, ma che per me rappresentavano una sorta di “eterogenesi dei fini”. Ero d’accordo con Pasolini nel considerarli dei semplici ambiziosi che volevano “ammazzare” e sostituire i “padri” (e ne sono divenuti la copia largamente peggiorata e priva di vera cultura! Appunto: dei semicolti!!); ma ero del tutto critico del pur notevole intellettuale per la sua mania di incensare i poliziotti in quanto figli di braccianti del sud, ecc. Anche i vandeani o le armate bianche nella Russia del ’17 erano contadini; e non è che, poveretti, non potessero avere qualche ragione per scegliere come scelsero. Il problema è tutto diverso, ma adesso non dirotto il mio discorso in altra direzione.
Ho visto non immediatamente (negli anni ’70), ma comunque poco dopo, come si era trasformato il cosiddetto antifascismo, divenuto quello della semplice “Liberazione”: dagli americani (pensa che bella liberazione!); e svendendo il paese a man bassa, mostrando solo il laido volto di opportunisti e veri traditori. Ho capito – anche se non l’ho combattuto adeguatamente sempre per la presenza del Pci e l’illusione di poter far ruotare la storia all’indietro – che tale antifascismo era la cloaca da cui sarebbe uscito il peggio del peggio. Dopo pochi anni di qualche “ascolto” – soprattutto per la frequentazione di alcuni ambienti piciisti, dotati di un minimo di elasticità e legame con il passato, e di qualche ambiente “gruppistico”, non sempre fra i meno peggiori – sono stato ampiamente silenziato da quelli de “Il Manifesto”. Ho avuto amicizie, e anche importanti, in quell’ambiente, ma nel complesso comandavano i peggiori, gli opportunisti, i seguaci di Mao e di Dubcek (come a dire “il diavolo e l’acqua santa”), quelli che consideravano la “rivolta polacca” come il nuovo ’17 e Walesa il nuovo Lenin, quelli che hanno applaudito Gorbaciov quale rifondatore del socialismo sovietico. Non ne hanno indovinato una, ma dico almeno una soltanto! E ancora pontificano, hanno visto di buon occhio perfino la “primavera araba”.
Ho sputato subito addosso a questi coglioni, presuntuosi, arroganti, pronti ad ogni giravolta. Assieme agli operaisti, quelli dei “Grundrisse” (anzi del “frammento sulle macchine”; non sapevano un cazzo di Marx e parlavano, parlavano, sproloquiavano, ascoltati da una massa ormai abbrutita di giovinastri senza la benché minima particella di materia cerebrale); quelli della “qualità totale” e del Giappone “toyotista” che avrebbe soppiantato gli Usa subito, fin dall’inizio del XXI secolo; quelli delle masse, delle moltitudini e tutte le invenzioni di gente malata di protagonismo, alimentata da classi dominanti serve degli Usa, ma sufficientemente accorte da sapere chi serviva loro.
Detto tutto questo, ritengo Marx tutto sommato superiore a certo pensiero liberale (o, forse meglio, liberista) e a quello sociale di origine cattolica e cristiana in genere, ecc. Naturalmente, questa mia concezione non può non risentire del fatto che mi sono orientato, per scelta, verso quel pensiero e quindi mi sono formato in un certo modo. In ogni caso, mi sembra che da Marx si possa uscire con una qualche utilità; perché io penso che egli sia stato uno scienziato e concepisco la scienza come qualcosa di utile, non le attribuisco poteri a mio avviso sovrumani come hanno fatto fior di marxisti “deviati”. Ho proposto, ormai da quasi due decenni, alcune vie di uscita da Marx che si vanno faticosamente precisando un po’ alla volta. Ormai credo di aver indicato più volte per sommi capi tali vie di uscita; comunque le sintetizzo. Intanto, ho preso atto che la classe operaia non era per Marx quella poi considerata dal marxismo successivo: i salariati in fabbrica addetti alle mansioni più vicine al lavoro manuale. Egli dice: “dall’ingegnere all’ultimo manovale (o giornaliero, ecc.)”. Si tratta dell’“operaio combinato” o (come l’ho chiamato) “lavoratore collettivo cooperativo”, che doveva essere il vero “soggetto rivoluzionario” destinato – per processi intrinseci alla dinamica capitalistica e non certo per semplici scelte e decisioni di chicchessia – a sostituire la borghesia nel potere di disporre dei mezzi di produzione.
In questa concezione, piuttosto diversa comunque da quella poi affermatasi come marxista, resta in ogni caso decisiva la sfera (“base”) economica, anzi quella produttiva in senso stretto, cioè trasformativa di materie prime in prodotti finiti (non necessariamente materiali nel senso stretto del termine). Cruciale diventa il potere di disporre e controllare i mezzi di produzione. In Marx invero si parla proprio di proprietà, e per di più privata. Si può però allargare il concetto. In ogni caso, chi controlla e dispone dei mezzi produttivi (macchine, strumentazione varia, ecc.)? Una classe separata e posta al vertice della società tutta (quella denominata borghesia)? Oppure l’insieme dei produttori (“ingegnere e manovale”) cooperanti a fini collettivi condivisi dal complesso della società? Cioè quei produttori che nella struttura dei rapporti capitalistici restano lavoratori salariati? Tutto questo non si è posto storicamente per il semplice fatto che è “abortito” (anzi non è mai partito, nessuno “spermatozoo” ha fecondato alcun “ovulo”; per assenza di entrambi!) ogni processo di formazione del lavoratore collettivo cooperativo.
Ho quindi proposto il passaggio dalla centralità della proprietà dei mezzi produttivi – perché questo è l’asse portante della teoria sociale marxiana e non riguarda affatto la sola formazione sociale capitalistica, ma tutte le altre succedutesi nella storia secondo la sua particolare interpretazione – a quella del conflitto di strategie attuate da vari gruppi di potere (con seguito sociale) per conquistare la supremazia. Con un’attenzione non soltanto ai fenomeni considerati tipici di una data epoca storica della società, ma anche al rapporto esistente tra varie formazioni particolari in una data fase di quella trattata in generale come pertinente all’epoca storica in questione. Non è affatto una teoria ben costruita, lo so; ha ancora molte pecche. La prima delle quali è il rischio di fare del decorso storico il semplice portato dello scontro tra più “soggetti”, che sono appunto questi gruppi di potere e le varie formazioni particolari. D’altra parte, il marxismo (anche quello marxiano) non tiene più una volta rivelatosi illusorio (non utopico, per favore, comunque non verificatosi) il formarsi di quel lavoratore collettivo di cui detto.
Altro è stato il decorso storico effettivo, e da qui bisogna partire. Ma sto già cadendo in un’altra semplificazione che produce nuove distorsioni della visione storica. Sono convinto che quella modalità di nascita (del presunto “soggetto rivoluzionario” in quanto classe operaia, ma nell’accezione marxiana) si sia dimostrata illusoria in generale, ma è indubbio che tale impossibilità si è manifestata pure perché il capitalismo studiato da Marx (con riferimento al “modello” inglese) non è quello poi affermatosi più stabilmente mediante la nascita di una diversa formazione sociale, venuta in essere negli Stati Uniti. La diciamo ancora capitalistica, ma l’uso dello stesso termine cela la differenza. Questo problema cruciale lo rinvio però ad un prossimo, più complesso, saggio.