Le convenzioni nella narrativa

Da Marcofre

Alla fine dell’estate, Lydia prese il battello per un’isola al largo della costa meridionale del New Brunswick, dove intendeva passare la notte.

Questo è l’incipit del racconto “Dulse” di Alice Munro, parte della raccolta edita da Einaudi dal titolo “Le lune di Giove”. Diamo un’occhiata a questo invece, che è l’inizio del romanzo “Delitto e Castigo”.

All’inizio di luglio caldissimo, sul far della sera, un giovane uscì dallo stambugio che aveva in affitto nel vicolo S., scese nella strada e lentamente, quasi esitando, si avviò verso il ponte di K.

Tra i due c’è oltre un secolo di differenza.
Il romanzo di Dostoevskij è stato pubblicato nel 1866, i racconti della Munro sono del 1977. E in mezzo guerre, rivoluzioni, lo sbarco sulla Luna, Internet e chi più ne ha più ne metta. Ma una cosa accomuna queste due opere così distanti.

Entrambe, già all’inizio, definiscono il quando, mostrano un’azione, e questa appartiene al protagonista. Il lettore non bada troppo a questo genere di cose, o meglio lo fanno in pochi. La maggioranza legge e basta. Non si rende conto di avere a che fare con una convenzione tacita, ma condivisa da moltissimi scrittori.

E non si dica che le convenzioni soffocano. È come dire che accendere la luce in una stanza buia è un abuso e una violenza inaccettabile. Certo, si può entrare, restare al buio, e fare amicizia con tutti gli spigoli e i muri presenti.
Perché? Si può fare, ma perché? Ne vale la pena? È così inaudito?

Certo, non tutti i racconti o romanzi rispettano questa convenzione, ma lo ribadisco: esiste. Definire almeno il tempo, e iniziare con un verbo di azione, con già il protagonista, è il mezzo migliore forse, per presentare al lettore la propria storia.
Niente elucubrazioni: azione. Comunicazione, per piacere.

Questo permette di comprendere come i bravi autori non lo sono perché hanno il talento (indispensabile), ma hanno letto parecchio. E hanno assimilato la lezione che non è solo l’aver imparato nuove parole, grazie alle storie.

Ma hanno acquisito la tecnica. Il talento senza tecnica non conduce molto lontano. Non basta avere i pezzi, occorre saperli assemblare al meglio, e mettere in moto la macchina della narrazione. Per riuscirci, ci vuole la capacità di lavorarli, scegliere gli utensili migliori e più adatti. Non è sufficiente la volontà. Se così fosse, sarei da un pezzo a Beverly Hills, a lucidare le cromature della mia Jaguar.

Sembra che Robert Louis Stevenson ricopiasse a mano i romanzi che preferiva, per imparare il mestiere, comprendere il ritmo delle frasi, impadronirsi del segreto che rende una manciata di frasi, magiche. Non so se questa è la strada, ma posso dire che la lettura non può limitarsi a immagazzinare parole e storie.

Se hai l’ambizione di scrivere, spera di avere il talento. E dopo, smonta le storie che ami. Non sono frutto dell’opera delle Muse, ma del sudore del loro autore.
Il sudore, esatto.


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