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Grazie a L., scopro che alla Casa del Cinema di Roma è in corso una rassegna cinematografica dal titolo L’Europa che ride, che si incrocia con un’altra rassegna dedicata ai documentari (Il mese del documentario). Dando un’occhiata al programma sono subito attirata dal film di Agostino Ferrente (l’autore del documentario molto bello sull’Orchestra di piazza Vittorio) e Giovanni Piperno, dal titolo Le cose belle.
Il documentario racconta le vite di quattro ragazzi napoletani: Enzo, Fabio, Adele e Silvana, che i due registi hanno filmato in due fasi della loro vita e della loro città molto diverse: l’età dell’adolescenza alla fine degli anni Novanta, e undici anni dopo quando tutti sono ormai adulti e la città di Napoli ha compiuto la sua parabola.
Innanzitutto devo premettere che mi affascina infinitamente la natura del documentario per la sua impossibilità di comprimere i tempi, di condensare e tagliare la vita come fanno le finzioni cinematografiche. In questo caso gli undici anni sono trascorsi sul serio. E lo vediamo dalla qualità del girato cinematografico che è molto scarsa alla fine degli anni Novanta (forse parliamo ancora di pellicola) ed è invece elevata per gli anni Duemila (sicuramente ormai in digitale). Ma lo vediamo anche dai volti e dai corpi dei protagonisti che hanno subito "solo" le trasformazioni prodotte su di loro dal passare del tempo, senza nessun intervento e nessuna finzione.
In secondo luogo, ho trovato interessantissimo questo racconto moltiplicato, che offre il punto di vista di quattro adolescenti, poi quello di quattro giovani adulti, e contemporaneamente ci mostra quattro diversi spaccati della città di Napoli, che diventano otto in considerazione delle trasformazioni avvenute durante gli undici anni tra un girato e l’altro.
Enzo, Fabio, Adele e Silvana vengono da famiglie diverse, abitano in quartieri diversi della città, hanno storie familiari diverse, ma condividono tutti un’estrazione fortemente popolare che li inquadra in un vissuto tendenzialmente difficile.
La città di Napoli resta sullo sfondo: attraversata, vissuta, guardata dall’occhio dei protagonisti e dello spettatore, muta, di un silenzio assordante, pieno di significati inespressi.
Enzo è un bambino un po’ grassoccio, a cui piace cantare la canzone classica napoletana e va in giro per i ristoranti con il padre che suona la chitarra. Da grande vuole fare il cantante.
Fabio è un vero “scugnizzo” napoletano: senza peli sulla lingua, ha un’opinione su tutto, è allegro e sfrontato. Vuole fare il calciatore, peccato che sa – perché tutti gliel’hanno detto – che non ha la stoffa. Sua madre fa la pescivendola e ogni giorno va al mercato del pesce, unica donna in un universo solo maschile.
Silvana viene da un quartiere popolare (Scampia?), vive con il padre, perché i suoi genitori sono separati. Ha molti fratelli e sorelle da entrambi i genitori. La sua è un’allegria malinconica fin da piccola; si rabbuia quando le chiedono come immagina il suo futuro.
Adele ha un fratello più piccolo e uno più grande (che in realtà arrivato all’adolescenza ha deciso di cambiare sesso e ora è Jessica), una madre presente, ma in qualche modo ostile e anaffettiva nei suoi confronti. Il suo grande sogno è fare da grande la ballerina.
Ritroveremo Enzo che lavora porta a porta per un’azienda telefonica ed è innamorato di una ragazza nigeriana. Fabio che ha perso il fratello maggiore, vive con la madre ma non ha alcuna voglia di lavorare. Adele che ha una figlia ma non un compagno; fa le pulizie in un hotel e la sera si esibisce in un locale notturno, e continua ad avere un rapporto conflittuale con la madre. Silvana vive con la madre che entra ed esce dalla galera, così come un suo fratello e il suo compagno, e sembra non avere alcuna prospettiva di vita.
Dietro di loro si muove prima la Napoli bassoliniana della fine degli anni Novanta che ha evidentemente suscitato delle speranze il cui riflesso si percepisce perfino nelle parole di questi adolescenti, per quanto il più disinibito di loro ripete una frase forse sentita dagli adulti, ossia che Bassolino ha fatto tante cose ma non ha pensato al futuro di quelli come loro, dei ragazzi. Negli anni Duemila la Napoli di questi giovani è una città invasa dall’immondizia, che sembra ormai rassegnata al proprio destino, all’incapacità di un vero e proprio riscatto, esattamente come Enzo, Fabio, Adele e Silvana.
Come dice la voce narrante, a Napoli è molto diffuso l’augurio “Belle cose”. Anche a Bari, dove diciamo “Tante belle cose”, cioè, pur sapendo che le cose brutte della vita toccano a tutti, l’augurio è che quelle belle le superino nel numero e nell’intensità.
E in fondo nei volti un po’ spenti e rassegnati, malinconici e tristi di questi giovani ormai entrati nella vita adulta (che fanno fortemente contrasto con le risate e l’allegria della loro prima adolescenza) non mancano momenti di distensione, se non proprio di felicità: un caffè con la persona che si ama, una partitella di calcio per strada, un ballo improvvisato in casa insieme alla propria bimba, il racconto di un sogno in abito da sposa che porta numeri da giocare al lotto.
Napoli – si sa – è una città strana, un mondo a parte, che funziona secondo regole in buona parte incomprensibili al resto del mondo. Per questo fa paura a quanti non riescono a coglierne lo spirito, ad entrare nella sua dinamica profonda. La mia amica V. dice che Napoli è una città che si ama e si odia, ma sempre in maniera “feroce”.
E, pur comprendendo che la realtà sociale rappresentata da questo documentario è solo una parte della società napoletana, a me colpisce profondamente lo spirito di un popolo che è in grado di riassorbire, per così dire di “normalizzare”, quasi qualunque cosa, nel bene e nel male. La tranquillità e la comprensione con cui la madre di Silvana parla di sua figlia Jessica che ha deciso di diventare donna, ovvero quelle con cui il padre di Enzo accoglie la notizia che suo figlio è innamorato di una donna di colore sono sorprendenti; dall’altro lato, la stessa serenità, la stessa totale accettazione della realtà e di tutto quello che ne fa parte vede queste famiglie accettare disgregazione familiare, illegalità, parassitismo e ignoranza.
Ci vuole l’occhio dell’antropologo sociale per capire un mondo così complesso senza esserne completamente sopraffatti.
Voto: 4/5
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