Il verbo to cover significa coprire o rivestire, occuparsi di, proteggere e persino coprire le spalle; cover, invece, sta per copertina, coperchio, rivestimento e tutto ciò che ha a che fare con la protezione, per cui anche manto, riparo e persino nascondiglio. È un inglese usato anche da noi per indicare la versione di una canzone rifatta da qualcuno che non sia l’autore o l’interprete originario. Ribadisco l’ovvio, sottolineando comunque la questione (da me) irrisolta del perché lo stesso temine non valga anche per la musica classica, in cui si eseguono cover da Beethoven e compagnia bella (forse perché lì non si lascia tanto spazio all’interpretazione, ad esempio, nel canto che invece può cambiare davvero i connotati di un brano pop; come la mettiamo allora con l’opera? Lì si canta…).
Scordatevi ora il pippone sulla lingua italiana a rischio appiattimento per l’imperante modello straniero che ci allontana dalla ricchezza della nostra lingua, facendone svanire il potenziale, da cui l’importanza di valorizzare invece le nostre sorgenti dialettali, come ultimo baluardo nella lotta a questa forma ulteriore di colonizzazione. Dimenticatelo per un attimo. Beandomi dello storico e assoluto dominio internazionale dell’italiano in campo musicale, che solo a noi rende leggibili le notazioni dei maestri di tutto il mondo, da Gershwin a Scriabin, voglio invece ringraziare l’imposizione di un inglese che nobilita l’attività di tanti amanti della musica, indicando col termine cover qualcosa in più del semplice rifacimento. Dal chiuso della stanza al palco del villaggio turistico, dal falò con gli amici all’annuale concerto tributo, chi risuona le canzoni – al netto della spinta esibizionistica o aggregativa – è mosso da un naturale bisogno di cura nei confronti di quel brano o di quel musicista.
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Tantissimi autori, in prima persona, propongono versioni diverse di brani registrati in studio e poi scolpiti nella pietra degli album in una forma che ci sembra intoccabile. Eppure, in quell’altra esecuzione possiamo scoprire un accento nuovo, un’intenzione diversa e complementare, non per forza contraria, un arricchimento. Racconta Fiorella Mannoia, e come lei altri grandi interpreti, che ogni tanto qualcuno le dice di aver “capito meglio” il testo di un brano di un altro cantante rifatto da lei. Questo dimostra solo che come la vita è di chi la vive, la musica è di chi la suona in quel momento, e le cover non esistono. Anzi, più una canzone è potente, solida nella struttura, nell’idea, nella dinamica, più si presta a versioni diverse che ne valorizzano la bellezza inconsumabile. A volte, poi, chi sente prima una cover di un brano fatta magari da un amico, si affeziona più a quella sua versione che a quella incisa nel disco dall’autore originale.
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