Le dernier combat – L’ultima battaglia (1983)

Creato il 22 novembre 2010 da Elgraeco @HellGraeco

Torniamo a parlare di cinema. Anche se il verbo parlare non è applicabile a questo film.
Torniamo subito anche al Bianco e Nero. Questo è di Luc Besson, direttamente dal 1983, sobrio ed elegante, che sa di vecchio anche se si condece il lusso di un wide screen e di una fotografia invidiabile. Probabilmente alcuni di voi condividono con me l’avversione per il cinema francese, le cinema.
Besson mi piace a corrente alternata. Negli ultimi tempi non lo sopporto granché. E tuttavia, lo sapete, gli scenari apocalittici sono il mio paradiso perduto. Si comincia a vedere la polvere, si scopre che è sabbia. Quella stessa sabbia che invade ogni spazio, lo ricopre e si infila persino nel polmoni.
La migliore acqua da bere è quella non troppo putrida e non ci sono più donne, a meno che non ci accontenti delle bambole gonfiabili.
Un giovanissimo Jean Reno, con i suoi tipici occhiali tondi. E ieri sera, rivedendolo in questo film brandire una spada profetica, che tre anni dopo sarebbe finita tra le mani del Kurgan, ho scoperto di assomigliargli fisicamente, e pure parecchio. Che ci crediate o no, in questo film sembra mio fratello [più alto, ndr] che non ho mai avuto. Poi si è smagrito, è invecchiato, ma ha continuato a lavorare con Besson e a parlare francese. E quello non lo mastico proprio.

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La Parola che non c’è

Il bello di questo film francese è che è muto. L’audio c’è, tranquilli. Quello che manca è il dialogo, o il monologo. Insomma, la voce degli esseri umani. Perché, con l’apocalisse atomica, è giunta anche una strana malattia che ha reso i superstiti muti.
Pensate a un’ora e mezza di film, per giunta in bianco e nero, dove non si dice una parola.
Fatto?
Bene. A questo punto si potrebbe preconizzare una bella dormita. Ma non avviene. E se sono rimasto ben sveglio a guardare Le Dernier Combat persino io, potete riuscirci anche voi.
Tra parentesi, dire che è un film muto non è esatto. Vengono pronunciate ben due parole, o la stessa parola due volte: bonjour.
Forma di saluto cortese. Che arriva in un momento qualunque, perché un medico ha scoperto che aspirando un certo tipo di sostanza gassosa, presumo elio, si può ancora riuscire a far vibrare le corde vocali. Quel buongiorno è poco più che un grugnito, ma, sussurrato in un mondo distrutto, ti fa sentire umano.

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L’Uomo

[c'è qualche piccolo spoiler]

Pierre Jolivet è il protagonista senza nome. Accreditato come l’Uomo. Converrete con me che, in questo scenario, i nomi non identificano alcunché e divengono semplicemente accessori, se non addirittura superflui.
L’Uomo si sollazza con una bambola gonfiabile ogni mattina. Poi si veste, si arma, e va in giro a sopravvivere.
Sta mettendo a punto un piccolo aeroplano monoposto col quale, spera, riuscirà ad abbandonare quell’infame deserto che è la sua casa. Gli serve solo una batteria ancora carica per avviare il motore.
Poco più in là, un piccolo gruppetto di sopravvissuti, baraccati dentro alcune automobili disposte a cerchio, hanno ricostituito una piccola società dove le dita umane sono valuta commerciale; nel frattempo difendono gelosamente una falda acquifera sotterranea, dalla quale dipende il loro potere e la loro stessa vita.
Quando l’acqua termina, un piccolo nano, tenuto segregato e incatenato nel bagagliaio di una delle auto, viene sguinzagliato nelle gallerie che conducono all’acqua per fare rifornimento.
All’Uomo non interessa l’acqua, vuole solo quella dannata batteria. E, per averla, deve fare l’unica cosa sensata. Prenderla, uccidere o essere ucciso nel tentativo.

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Il Mostro

Il passo precedente è solo l’inizio di questo film. Capite bene come riesca a tenere ben desti nonostante il silenzio.
L’unica cosa poco digeribile è la colonna sonora. Quando non si tratta di musica inserita sulla scena tramite mangianastri, ovvero musica facente funzione di dialogo [con lo spettatore], lo score tendente al jazz o alla musica sintetizzata ancora appartenente agli anni ’70, è non solo avulso dal contesto, ma addirittura insopportabile e provvede a fornire ad alcune sequenze una sfumatura comica che, non so se volontaria o meno, risulta essere ingiusta.
Per il resto si insiste molto, e non potrebbe essere altrimenti, sul paesaggio, ma in senso lato. Bellissimi scorci di desolazione e angusti corridoi sbrecciati di palazzi sul punto di crollare. Residui si civiltà sui quali, però, non si indugia a lungo, né si interagisce evitando, così, di sovraccaricare i singoli oggetti di valore simbolico.
L’idea che se ne ricava è che i sopravvissuti non rimpiangono il passato e accettano il presente nel modo più semplice: vivendolo.
Un presente che, nella seconda parte del film, si chiude dentro gli edifici, come fosse un tesoro da scoprire. E di roba da scoprire ce n’è parecchia.
Tracce di fiaba, in alcuni motivi ben delineati. Sembra che nei sotterranei allagati di certi palazzi si nascondano strane creature sotto la superficie increspata dell’acqua, pronte ad attaccare. Probabilmente coccodrilli, anche se non viene fornita alcuna spiegazione. Perché il mostro è e deve restare un concetto nell’ombra, indefinito, inspiegabile, e deve terrorizzare proprio per questo.
E il crollo della civiltà non è tanto nella violenza insita nei rapporti umani, se ancora così si possono definire, quanto nell’assenza totale di ogni stimolo, soprattutto la curiosità, quella che porta l’uomo a conoscere e a dominare la realtà.
Senza la curiosità, c’è il sonno della ragione. E quel sonno genera mostri.

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La Donna

L’unica donna, mai mostrata interamente, ma attraverso inquadrature fugaci di parti del suo corpo, è tenuta segregata in una piccola cella per il suo bene. I barbari che sono nel mondo esterno non sanno più cosa sia una donna, ne hanno solo un vago ricordo. Ma quest’ultimo non presuppone un’interazione che non sia violenta e fatale.
Stupidamente, seguendo il ritmo di uno score folle, si assiste a tante piccole scoperte, da parte dell’Uomo rimasto, contro tutte le aspettative, persino troppo umano.
I graffiti sono una nuova, ma non inedita forma di comunicazione. Raffigurano sempre la stessa cosa, il mondo filtrato dalla coscienza di colui che li dipinge, l’artista.
Si cena cucinando pesci putridi piovuti dal cielo durante gli acquazzoni, bevendo le ultime bottiglie di vino, e si combatte non sapendo fare altro, perché non si può comunicare. E a quel punto, lo scontro fisico è l’ultima spiaggia. Un residuo simbolico di una vecchia pratica in disuso: il dialogo.
Sempre di confronto si tratta.
La consapevolezza che più fa orrore, però, è che non si è capaci neppure di urlare, ma si continua lo stesso a provare dolore.

Approfondimenti:
SCHEDA del film su IMDb

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