Ripubblico oggi qui in italiano l'intervista concessa a Steve Bisson e apparsa in inglese sul suo eccellente blog URBANAUTICA il 20 aprile 2011.
PHOTOTALKS: "FULVIO BORTOLOZZO"
1) In
Passi carrai lo sguardo cade su territori simbolicamente precisi, interstizi e ritagli di spazi urbani che nel tuo obiettivo acquisiscono una poetica ben definita. è come ritrovarsi in un luogo di tutti e di nessuno insieme...
Sì, l'idea di Passi carrai mi si affacciò come possibile serie pensando alle inquadrature naturali di Luigi Ghirri. Sono difatti strutture urbane che creano vere e proprie scene in prospettiva centrale il più del tempo vuote, tranne che per i brevi passaggi delle automobili, e dei loro guidatori prima e dopo averle parcheggiate. In questo senso sono anche simboliche di una condizione contemporanea universale: spazi dedicati sempre più a funzioni specifiche, ma proprio per questo sempre più "inabitabili". Guardare alla città attraverso queste strutture significa per me osservare "dritto negli occhi" quelle vere e proprie sospensioni esistenziali in cui mi sento immerso di continuo. Una sorta di film perennemente interrotto da vuoti nei quali si affaccia la vertigine di una certa insensatezza del vivere. È come camminare sul ciglio del burrone, con un misto di attrazione e repulsione.
2) L'analisi del paesaggio è tema ricorrente nei tuoi progetti. Forse è più corretto parlare di
Habitat. Nella serie omonima quali scelte hai preso per esprimere le condizioni che caratterizzano l'atto insediativo del tuo Paese?
Un habitat italiano è una serie che affonda le sue radici nell'opera aperta Scene di Passaggio (Soap Opera). Si tratta di una sequenza cronologica di luoghi attraversati da una soap opera nella quale rivesto il ruolo di protagonista: la mia vita. Tra le regole che mi sono dato per questa performance, c'è l'adesione alla scelta di realizzare un'immagine fotografica di grande formato (4x5") quando incontro casualmente un punto di tensione, un contatto ineludibile, tra il luogo che sto attraversando e il mio sentirlo riecheggiare nella mente. L'idea che mi sorregge è che questo sia un modo concreto di rinunciare a voler dire qualcosa di preciso a tutti i costi, di voluto e consapevole intendo, per poter dare finalmente dello spazio interiore ad una forma di conoscenza nuova, imprevista. Quando circoscrivo questo metodo ad un territorio preciso, come anche nel caso di Olimpia, ecco che posso costruire una mappatura di punti mediani tra quelli che mi paiono essere i caratteri percepibili di quel luogo e il mio ritrovarmi in essi. Un attraversamento, un "passaggio", durante il quale posso estrarre dal tempo e dallo spazio delle tracce ottiche verosimili che costituiscono contemporaneamente una forma di autoritratto. I luoghi vivono per questo come riflessi nei miei occhi, con tutta la parzialità, ma anche l'autenticità del caso. Sono quindi scene, spesso vuote, nelle quali l'ordine provvisorio è dato dal mio transito, ma nel rispetto del loro eventuale disordine costitutivo, che, nel caso del paesaggio urbano italiano contemporaneo, spesso abbonda.
3) Oggi ci ritroviamo spesso a osservare fotografie che ritraggono ambienti "vernacolari". Quanto è importante la percezione e la ricerca di una soggettività nel tuo lavoro. Quanto la fotografia può contribuire a "reinventare" l'esperienza visiva?
Qualche elemento l'ho già anticipato nella risposta precedente. Per proseguire nel ragionamento, ritengo necessario precisare come il fotografico sia per me una forma dell'esperienza che permette di mettere in discussione il proprio modo di relazionarsi con le cose. In questo senso, la restituzione prospettica classica mi serve come ancoraggio ad un sistema culturale, quello umanistico occidentale, che mi dà la misura, il punto d'equilibrio, tra le mie pulsioni più soggettive e una nuda apparenza ottica che sia culturalmente condivisibile e verosimile. Si tratta di una scelta arbitraria, non migliore o peggiore di altre. Tuttavia la sento come imprescindibile. Così come trovo inevitabile fare fotografie che sembrino fotografie, cioè tracce il più possibile "trasparenti" di quanto vado percependo direttamente con gli occhi. Per questi motivi, ogni novità visiva che possa incontrare nel mio fotografare desidero che emerga direttamente sul campo, senza interventi di manipolazione in ripresa o postproduzione. Almeno non oltre la soglia della verosimiglianza, che per me è il confine tra un'immagine fotografica e una tradizionale immagine grafica. Va da sè, che non sono perciò interessato a quello che definirei "pittorialismo di ritorno", cioè la ricerca di uno stile che muova a meravigliare il prossimo attraverso l'adozione non più, come un tempo, di soluzioni che imitino la pittura, ma semmai di stili e "impronte" della fotografia storica. In ultimo due parole sul "vernacolare". Temo che sovente oggi dietro la scelta di soggetti e soluzioni vi sia purtroppo molta accademia. Così come un tempo si potevano fotografare rovine romantiche e chiari di luna illudendosi che contenessero poesia di per se stessi, oggi accade lo stesso con le pompe di benzina, le fabbriche abbandonate e gli angoli urbani residuali. Ritengo che il fotografico sia un'esperienza storica e che soggetti e modi abbiano un tempo dato oltre il quale si consumano. La via d'uscita più interessante ritengo sia quella di portare il fotografico nel proprio quotidiano, senza forzature. Con la serie Appunti per gli occhi sto proprio sperimentando questo.
4) Lavorando su commissione è possibile instaurare comunque una dialettica con il luogo e la sua vera natura. Portaci degli esempi (pensavo ad Orbassano, Grugliasco..)
L'esperienza del fotografare su commissione può condurre ad esiti molto interessanti solo se il committente accetta di considerare il lavoro del fotografo come un atto di conoscenza che nasce dall'osservazione, spinta sino alla contemplazione, non condizionata da altre esigenze utilitaristiche. Ogni qual volta sia possibile muoversi senza obbligo di risultato si apre la possibilità di realizzare immagini davvero nuove, nel senso di inattese, che riportino aspetti non ancora considerati sulla natura dei luoghi. Per consentire al fotografo di arrivare agevolmente a questo "stato di grazia" professionale il committente deve però rinunciare da subito alle sue aspettative. Deve avere il coraggio di accogliere quanto verrà presentato senza chiedere che possa avere immediate ricadute promozionali e celebrative; pena il rischio di ritrovarsi con minime variazioni di stereotipi che nulla possono aggiungere ad una iconografia ormai consumata.
5) Diversi tuoi lavori mettono a fuoco la città come processo di trasformazione, visioni di paesaggi in transizione, l'interferenza della società sui territori. Quanto una visione scenica o contemplativa può creare il distacco necessario alla concentrazione dello sguardo (penso ai lavori notturni di Torino)?
Ritengo che lo spostamento dei tempi, un rallentamento nella maggior parte dei casi, possa condurre il fotografo a porsi nella migliore condizione per cogliere nel flusso percettivo dei solidi punti d'ancoraggio a cui fissare una superiore intensità dello sguardo. In questo senso la notte urbana ha molti vantaggi. I luoghi più intensamente animati di giorno perdono ogni dinamismo e si lasciano percorrere con tutta la necessaria calma. La luce artificiale inventa presenze e forme inosservabili di giorno, rivelando straordinarie potenzialità evocative. Per lunghe ore nulla muta e questo consente di "abitare" gli spazi sino a renderli parte intima del proprio sentire. In ultimo, ma non per ultimo, il vuoto e il silenzio della notte favoriscono l'apparizione della "scena", cioè di una visione scenica, teatrale, dello spazio. Si attua quello che Brecht definiva "straniamento", da non confondersi con altri possibili usi della notte urbana a scopo puramente spettacolare ed emozionale. Gli stessi rallentamenti si possono attuare anche di giorno, ma cercando momenti che li favoriscano. Le festività sono particolarmente indicate per i luoghi di lavoro come, per esempio, i cantieri edili. Le mattine feriali lo sono invece per i parchi e le zone residenziali. In ogni caso, si tratta di uscire dal ritmo imposto dalle cose per ascoltarne uno proprio; fare il vuoto per dare spazio ad una percezione nuova.
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