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Come per Picasso, compagno di camera e notti allegre al Bateau-Lavoir, ex fabbrica di pianoforti trasformata in ostello bohémien nella Parigi carnale e dissipata tra le due guerre, l’universo del pittore di Rotterdam Cornelis Theodorus Maria van Dongen (1877-1968) è costantemente abitato da donne, compagne, amiche, amanti, che lo accompagneranno fino ai capelli bianchi. E infatti, ha superato gli ottanta quando incrocia la giovanissima Bardot.
Van Dongen nasce in un anno cruciale per la storia della pittura francese. Nei salon parigini si stanno consumando gli ultimi fuochi dell’incendio Impressionista. Nel 1877 Cézanne ha lasciato il gruppo, resiste al cavalletto Camille Pissarro, ma ancora per poco. Con brevi pennellate di colore quasi puro, la nuova pittura fauve realizza la divisione prismatica dei colori (tecnica che in Italia si chiamerà divisionismo), infine, dettaglio importante, alla teoria della visione dal vero sostituisce la riflessione dell’uomo moderno sulle scoperte scientifiche dell’epoca, nel campo dell’ottica e della fisiologia ( Eugène Chevreul, Thomas Young, von Helmholtz, James Clerk Maxwell).
Nel maggio 1886 Seurat e Signac espongono le loro prime opere neoimpressioniste all’ottava e ultima mostra del gruppo di Monet, ormai disertato anche dai suoi stessi artisti. Il neoimpressionismo si diffonde oltre i confini francesi e fa proseliti, in Belgio si aggregano Henri van de Velde e Théo van Rysselberghe, in Olanda si distingue l’ex simbolista Jan Toorop, ma il vero portabandiera è Van Dongen, che, a 25 anni, espone al Salon d’Automne nella “Salle fauve” con i big del movimento: Matisse, Marquet, Dufy, Vlaminck e Braque. La sua identificazione col fauvismo è totale, da quando, ventenne, lascia Rotterdam per la Francia, fino al trasferimento definitivo a Monaco, a partire dal 1949.
Tra le sessanta opere in mostra al Museo Boijmans (fino al 23 gennaio), per la maggior parte realizzate durante i viaggi del pittore in Egitto, Spagna e Marocco (1910-13), spiccano ritratti indimenticabili, come “Un dito sulla guancia”, con la modella che si mostra a mezzo busto e quasi protesa verso chi guarda, i grandi occhi neri allargati dal trucco, le labbra color corallo appena schiuse. L'artista coglie l'atteggiamento fiero e disinibito della donna spregiudicata e compiaciuta della sua bellezza. Un modello di emancipazione che farà storia. Per la sua dedizione al dettaglio, l’olandese viene addirittura accusato di essere più un make up artist che un pittore.
Kees, grande e grosso e sempre a corto di soldi, che per vivere ha fatto lo strillone e l’imbianchino e perfino il lottatore nelle fiere, nel 1910 si conquista finalmente una posizione con “Lo scialle spagnolo”. un ritratto di donna latina, molto colorato, intenso, passionale. Il quadro, 100 per 81.2 cm, piacerà molto a Farah Diba, l’ex consorte dell’imperatore iraniano Reza Pahlavi, che negli anni ‘60 lo acquisterà per il museo d’arte contemporanea di Teheran, che oggi lo presta a Rotterdam. Esposta al Salon del 1913, la bella spagnola dividerà il mondo in due. Chi la ama, chi la detesta. Ma dalla querelle al successo, il passo è breve. Adesso tutti (quelli che contano) vogliono farsi ritrarre da Kees. Dal re del Belgio Leopoldo III all’Agha Khan, alla bellissima marchesa Casati, per arrivare a B.B.
Van Dongen, forse un po’ pretestuosamente, è stato definito il corrispettivo francese di ciò che Andy Warhol ha rappresentato, negli stessi anni, per il bel mondo della Grande Mela. Mentre a New York il vate pop esegue in serie i ritratti serigrafati delle varie Marilyn, Jacky e Liz, nella Ville Lumière Kees mette in posa le sue voluttuose e truccatissime modelle, così carnali e consunte da esotici vizi di sapore baudeleriano. Visioni di donna diametralmente opposte, ma in entrambi i casi il risultato è dannatamente glamour e eccitante.
Melisa Garzonio
Alcune opere dell'artista
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