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Le donne hanno “dichiarato guerra” alla ‘ndrangheta?

Da Suddegenere

Le donne hanno “dichiarato guerra” alla ‘ndrangheta?

Donne DaSud, 25 settembre 2010 RC, foto di Anna Maria Basile

LA ‘NDRANGHETA HA DICHIARATO GUERRA ALLE DONNE , di Franca Fortunato pubblicato su Il Quotidiano della Calabria 08.09.2011 .

“”Il fatto che la ‘ndrangheta, da organizzazione patriarcale familistica criminale qual è, abbia dichiarato guerra alle donne, che l’abbandonano e la “tradiscono”, uccidendole o suicidandole, c’era da aspettarselo. E’ quanto accade anche a tutte quelle donne (mogli, fidanzate, ex, figlie e sorelle) che, in varie parti del mondo, tentano di riappropriarsi della propria vita, mettendo in discussione relazioni in cui le donne venivano viste come “proprietà degli uomini”. La ‘ndrangheta su quella “proprietà” vi ha costruito la sua forza e il suo essere criminale, contando sempre sulla subordinazione ed omertà delle donne della “famiglia”. Ebbene tutto questo è finito, o sta per finire, e le donne ne stanno pagando il prezzo più alto. Non credo affatto che la morte di una donna, per mano diretta o indiretta della ‘ndrangheta, a causa del suo amore per la sua libertà e per quella delle sue figlie e figli, sia, per quanto dolorosa, una sconfitta – come ho letto su molti giornali in occasione del “suicidio” di Maria Concetta Cacciola. Lea Garofalo ce lo insegna. Sua figlia Desirè, dopo l’uccisione della madre, per mano mafiosa, si è costituita parte civile nel processo contro il padre, accusato di averla uccisa. Il desiderio di libertà femminile cammina nel mondo, anche in quello della ‘ndrangheta e ne sta erodendo le fondamenta. All’indomani della manifestazione dei giovani di Locri del 2005, di fronte alla grande partecipazione delle ragazze, tutte studentesse, che gridavano “libertà” per sé e per le altre, su questo giornale avevo scritto “Non lasciamo sole le figlie dei mafiosi”. A distanza di tempo a Rosarno, sta accadendo qualcosa di grande per le donne e di catastrofico per la ‘ndrangheta. Mi riferisco non solo alla vicenda della collaboratrice di giustizia, Giuseppina Pesce, ma alle giovani studentesse Annamaria Molé e Roberta Bellocco, appartenenti a due delle più potenti famiglie mafiose della Piana di Gioia Tauro, che, in occasione di alcune iniziative sulla Legalità del Liceo Scientifico di Rosarno, che loro frequentano, hanno dato testimonianza del loro desiderio di essere libere di poter vivere la propria vita, nonostante il nome che portano. E’ Rosarno, con in testa la sua giovane sindaca, Elisabetta Tripodi, oggetto di minacce e diffamazioni da parte del boss Rocco Pesce, attualmente in carcere, che oggi si sta imponendo come luogo significativo di lotta delle donne contro la ‘ndrangheta, che non ha più il credito di tante donne della sua “famiglia”. Quando una donna , come Maria Concetta Cacciola, nata e cresciuta in una famiglia mafiosa, decide di collaborare con i magistrati e si mette contro la sua “famiglia”, non si può non tenere conto delle sue motivazioni, legate all’amore per la figlia e il figlio. Questo vuol dire che bisogna smetterla di vedere ogni donna che collabora e si fa testimone come se fosse un uomo. Non è nel trionfo della verità, nella legalità o nella collaborazione con lo stato contro l’antistato, che queste donne trovano la forza e il coraggio di denunciare persino la propria madre e sorella, come nel caso di Giuseppina Pesce, il proprio marito, come nel caso di Lea Garofalo e Tina Buccafusca, moglie del boss Panteleone Mancuso di Nicotera, “suicidata” prima che iniziasse la collaborazione con i magistrati, ma è nell’amore per la libertà loro e delle figlie e figli. Tutte hanno dichiarato che lo facevano per dare un futuro migliore ai loro figli. . Questo vuol dire che non si può – come è stato fatto con Maria Concetta Cacciola - separare la madre dai figli durante il periodo di protezione e affidarli a quella famiglia da cui voleva fuggire. Era inevitabile che decidesse di tornare da loro per riprenderseli. Era prevedibile il suo suicidio. Non chiamate più queste donne “i testimoni”, “i collaboratori” ma “le testimoni” e “le collaboratrici”. Donne e uomini non sono la stessa cosa, neppure nella lotta alla ‘ndrangheta.”"

Vedi anche:

Calabria, donne suicidate. Ma da chi?  di Doriana Righini

Il coraggio di Concetta affogato in un bicchiere di acido muriatico di Maddalena Robustelli


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