Nel Seicento diviene vera e propria moda l’intrecciarsi di scambi epistolari tra donne di cultura e filosofi di alto livello. Era una consuetudine che rinviava a procedure reverenziali e dedicatorie tipiche di quel tempo, ma implicava comunque una nuova e diversa collocazione delle donne dotte e letterate nei confronti di Scienza e Filosofia, soprattutto perché spesso, oltre a procurarsi riconoscimenti e benevolenze, i filosofi intrecciavano vere e proprie discussioni con le nobildonne amiche di penna. Un esempio di questi carteggi ad elevato contenuto culturale è una delle Lettere copernicane di Galileo Galilei indirizzata nel 1615 a Cristina di Lorena. Lo scienziato, già nel mirino dell’inquisizione, intendeva dimostrare a Cristina come le sue idee scientifiche non fossero in contrasto con la fede religiosa.
Ancora più rilevante fu il rapporto epistolare tra la principessa palatina Elisabetta di Boemia, celebre per la sua conoscenza delle lingue e la sua passione per le lezioni di anatomia che seguiva assiduamente, e il famoso filosofo e matematico René Descartes: ci restano 26 lettere della principessa e 33 del filosofo che costituiscono un vero e proprio antefatto e commento del Trattato delle Passioni dell’anima pubblicato da Descartes nel 1649 ma i contenuti, molto vari e di estremo acume delle lettere di Elisabetta, sono stati perlopiù ignorati o comunque sottostimati dagli storici, rispetto a quelli presenti nelle lettere del filosofo. I Principi di filosofia pubblicati nel 1644 però erano già stati dedicati ad Elisabetta, ciò lascia intendere che si tratta di argomenti ampiamente dibattuti con la principessa, e non è eccessivo pensare che gli sforzi argomentativi di Descartes si concentrino proprio sui punti di cui chiedeva delucidazione la donna nelle sue lettere – l’unione nell’uomo tra anima e corpo, l’ipotesi di anima come qualcosa di materiale – per cercare di dare una risposta razionale e compiuta alle osservazioni fatte da Elisabetta che godeva di un acuto senso critico.
Elisabetta di BoemiaIn tema di donne cartesiane è da ricordare anche l’opera di Giuseppa Eleonora Barbapiccola, allieva di Giambattista Vico, che tradusse in italiano i “Principi della filosofia” di Descartes, premettendovi un introduzione in cui manifestava il timore che un opera filosofica di così alto valore risultasse sminuita dalla traduzione fattane da una donna, poiché l’opinione comune aveva ritenuto l’intelletto femminile inadeguato a pensare secondo i principi della Ragione. A tale opinione la Barbapiccola oppone la presenza nella storia di alti ingegni femminili.
Ovunque le trasformazioni sociali avevano posto le premesse per una più ampia e consapevole partecipazione delle donne alla vita politica, artistica e culturale, eppure molte di loro conducevano ancora una vita mortificante, escluse dagli alti livelli si istruzione e da ogni ruolo significativo e consegnate vita natural durante al matrimonio o alla clausura. Le donne vivevano recluse in casa, con finestre sbarrate e divieto di conversare con estranei. Quando uscivano per entrare in chiesa o per commissioni erano accompagnate da altre donne, di solito anziane. Nacque quindi un dibattito, che spesso era un accanita disputa, in merito alle capacità ed ai ruoli sociali della donna e circa il concetto di inferiorità che rinviava a pregiudizi e ideologie antiche della cultura occidentale, ma ancora in auge a quei tempi. Fu ad esempio dato alle stampe nel 1599 un testo dal titolo “I donneschi difetti” dell’abate Tondi e ne “Il cavaler e la dama” il Cardinale De Luca nel 1675, con considerazioni giuridiche e politiche, ribadiva la necessità di non “incrinare consuetudini secolari” e mantenere taluni diritti solo per le donne di alto rango, che li acquisivano grazie ai mariti.
Alle tesi sull’ontologica inferiorità della donna rispetto all’uomo molte donne di cultura risposero con saggi e opuscoli, tra cui ricordiamo: “Il merito delle donne” di Moderata Fonte (Modesta Pozzo) in cui tre donne Corinna Virginia e Cornelia parlano liberamente dei loro problemi e desideri, lontane dalla presenza maschile, in casa di Lenora, una giovane vedova. Il dialogo si conclude con questi versi:
“S’ornano il ciel le stelle,
ornan le donne il mondo,
con quanto è in lui di bello e di giocondo.
E come alcun mortale
viver senz’alma e senza cor non vale
tal non pon senza d’elle
gli uomini aver per se medesimi aita
chè è la donna de l’uom cor, alma e vita
L’opera di Lucrezia Marinelli “La nobiltà e l’eccellenza delle donne co’ i difetti et mancamenti degli uomini” è esemplare come critica filosofica e parte dalla concezione della donna in Platone ed Aristotele, con riferimenti a Diogene, Laerzio e Plutarco, e conclude per la sostanziale uguaglianza fisica e metafisica fra uomo e donna postulata dai filosofi (con un occhio di riguardo per Platone che destinava le donne agi stessi impieghi degli uomini). La Marinelli si sofferma sulle diverse variazioni del mito delle Amazzoni e sulle donne celebri nel tempo, argomentando la sua tesi con rigore storico e logica impeccabile “Credono alcuni, poco pratici delle istorie, che non ci siano state, né ci siano donne nelle scienze e nelle arti perite, e dotte. E questo appresso loro pare impossibile. Ne si possono ciò dare ad intendere ancor che lo veggano, e odano tutto il giorno, persuadendosi che Giove abbia dato l’ingegno, l’intelletto, ai maschi solamente, lasciandone le donne, ancor che della medesima specie, prive. Ma se quelle hanno la medesima anima ragionevole che ha l’uomo, come di sopra ho mostrato chiaramente (…) possono imparare le medesime arti, e scienze, le quali imparano gli uomini e anzi quelle poche che alle dottrine attendono, divengono tanto delle scienze onorate che gli uomini le invidiano, o le odiano, come sogliono odiare i minori i maggiori.”Altra figura di spicco della cultura barocca è la veneziana Arcangela Tarabotti suora benedettina che con lo pseudonimo di G. Barcitotti proponeva la sua visione del mondo femminile e femminista all’interno del claustro. A quel tempo, per evitare che i patrimoni delle famiglie patrizie si dividessero tra troppi figli e che il numero degli aristocratici crescesse troppo era invalsa la consuetudine di relegare al chiostro la gran parte delle fanciulle di buona famiglia, e così Arcangela. Tra le sue opere la più polemica è La semplicità ingannata o Tirannia paterna (pubblicata postuma nel 1654 e messa ben presto all’Indice, poiché esprimeva una dura protesta contro la clausura inflitta alle suore, in particolare a quelle che prendevano i voti in giovane età sotto l’influenza paterna) Inferno monacale, Paradiso monacale, Difesa delle donne contro Orazio Plata, Antisatira. Quest’ultima è una risposta, sollecitata alla Tarabotti da un gruppo di donne veneziane che si erano sentite offese dal panphlet di Buoninsegni “Contro il lusso donnesco”, nella quale la suora, al moralismo maschile che criticava l’ingombrante e sfarzoso abbigliamento femminile, contrappone argomenti taglienti: accusa gli uomini di criticare le donne dopo averle per secoli private di istruzione, di essere altrettanto e più vanitosi, di risparmiare sulle mogli per spendere con le prostitute.
Juana Inés de la CruzUn altra suora, nel lembo estremo dell’impero transoceanico di Filippo IV, ha una storia altrettanto esemplare e interessante: la messicana Juana Inés de la Cruz, poetessa, filosofa e religiosa. Nata in una modesta famiglia, figlia illegittima, studia con il nonno e trasferitasi giovane a città del Messico divenne damigella d’onore della Viceregina la Marchesa di Mancera e, nel 1667 secondo la consuetudine che imponeva alle donne il matrimonio o i voti, entrò come novizia prima nel Convento delle Carmelitane Scalze e poi in quello meno severo delle Suore Girolamine. Molto apprezzata per la sua cultura, riuscì a far si che il Parlatorio del convento diventasse un vero e proprio luogo d’incontro per personalità di corte e letterati, la sua cella una vera e propria biblioteca, tanto che dovette aquistare altri locali del convento per riporvi libri e strumenti scientifici e musicali con i quali studiava e si esercitava. I sui Padri confessori non vollero per questo più frequentarla, ma lei non perse mai la protezione della corte, specie quando il Viceregno passò a Maria Luisa Gonzaga. Suor Juana scrisse commedie di argomento profano, opere erudite e poesie che ebbero uno straordinario successo e sono tra le più rappresentative del tardo barocco spagnolo, finché fu esortata dal Vescono di Santa Cruz alla modestia, o almeno a rimanere nella sfera della letteratura religiosa. La donna diede così una svolta alla sua esistenza, donò la biblioteca e i suoi strumenti di studio e si dedicò unicamente ad opere di carità, firmando col sangue una dichiarazione di sottomissione a dio, pronta a seguire il suo cammino. Morì alla fine del secolo durante una pestilenza e fu una personalità unica e tragica, suora per poter studiare, rinunciò allo studio per ossequio all’autorità ecclesiastica.
Biblio:
Galileo Galilei Lettere a Cristina di Lorena Mancosu ed. Roma
Reneè Descartes Lettres sur la morale
Giuseppa Eleonora Barbapiccola – trad di Reneè Descartes I principi della filosofia” Torino 1722
Ginevra Conti Odorisio Donna e società nel Seicento Bulzoni ed. Roma
Lucrezia Marinelli Rime
Suor Juana Ines de la Cruz Poesie
Riccardo Campa Profilo della cultura spagnola Rizzoli, Roma